PRESENTAZIONE
In uno scritto, al contempo autobiografia
e saggio, Yves Lebreton ci invita a cogliere le "sorgenti"
ispiratrici della sua ricerca artistica. Traccia le tappe del
suo impegno sulla via elitaria del Teatro Astratto il cui assolutismo
lo spingerà ad intraprendere la propria "desacralizzazione"
tramite la sovversione del comico e il teatro popolare. Distante
dalle convenzioni storiche, ripensa l'insegnamento di Etienne
Decroux nel contesto del teatro contemporaneo, provocando inattesi
confronti tra Edward Gordon Craig, Adolphe Appia, Emile Jaques-Dalcroze,
Jacques Copeau, Antonin Artaud e Jerzy Grotowski. Non senza
spirito critico, analizza le basi dell'Antropologia Teatrale
di Eugenio Barba. Sorprendentemente per un artista del silenzio,
il suo studio della voce incentrato su i ritmi respiratori e
il significato originario dei fonemi, lo conduce ai confini
del linguaggio primario. Ma soprattutto, la sua inesauribile
necessità di discernere al di là dell'attore "l'uomo
nella sua essenza", gli permette di svelare le "energie"
viventi dell'espressione umana. Le sue tecniche del "Corpo
Energetico" e del "Corpo Vocale" in simbiosi
con i quattro Elementi, i regni della natura, il cromatismo
dei colori e dei suoni, costituiscono l'ossatura di una metodologia
totalmente inedita per l'attore dove non si tratta più
di acquisire un sapere, ma di scoprire le potenzialità
dell'Essere che sono le fondamenta di ogni individualità.
INDICE
Premessa
Prologo
Infanzia
Il Jazz
La chitarra
Il violoncello e il piano
Abbandono degli studi secondari
La scuola preparatoria per l'insegnamento del disegno
La compagnia teatrale di Monsieur Rubac
I corsi d'arte drammatica Perinetti
Spettacolo poetico
Incontro con Étienne Decroux
Rinuncia alla musica
Il Mimo Corporeo
Le conferenze di Étienne Decroux
Il Mimo Corporeo e il teatro
Il poeta ginnasta e l'attore creatore
La Statuaria Mobile
La metodologia della Statuaria Mobile
Analisi della Statuaria Mobile
Il corso degli anziani
Il dinamo-ritmo e il processo interiore
Le improvvisazioni e la linfa
L'Energia
Il Mimo Astratto
Il Mimo Astratto e la pantomima
L'atelier con Ingemar Lindh
Il Mimo Vocale
La dizione e il canto
Ricerca sul linguaggio
Dissenso
Stile e tecnica
Maximilien Decroux e Jacques Polieri
L'Esaltazione Corporea
La conferenza di Jerzy Grotowski
Akropolis
Incontro con Eugenio Barba
Ferai
Étienne Decroux e Eugenio Barba
Espulsione dalla scuola di Étienne Decroux
Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana
Il Bauhaus e Oscar Schlemmer
Buster Keaton
I quattro Elementi e cinque studi di Mimo Astratto
Abbandono dell'insegnamento del disegno
Il teatro professionale
Creazione dello Studio 2
L'acrobazia con Romano Colombaioni
La maschera di Jerzy Grotowski
Ostinazione II
L'elaborazione della tecnica del Corpo Energetico
Dialogo e l'Oggetto Corporeo
Realizzazione del film Il Mimo Corporeo
Risonanza e il Corpo Risonante
La metamorfosi di Jerzy Grotowski
Possessione e incontro con Gilles Maheu
Sviluppo dell'allenamento fisico
Il risveglio
L'elaborazione della tecnica del Corpo Vocale
Canto
La rottura
La desacralizzazione
Il Riso di Henri Bergson
Il comico e il tragico
Il senso dell'ironia
Chaplin, Tati, Keaton, il clown e Beckett
Monsieur Ballon e la sua famiglia
La nascita di Eh?...
La scoperta, la virginità, l'infanzia
L'azione di strada
Spettacoli per i bambini
Eh?... o le avventure di Monsieur Ballon
Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare
La ricerca fondamentale
Il Teatro Corporeo
Atti senza parole 1 e 2 di Samuel Beckett
Partenza di Gilles Maheu e Reidar Nilsson
Addio al Teatro Laboratorio e dissoluzione dello Studio 2
Diritto di sguardo
La Gabbia e il Teatro dell'Albero
Boh!... o le disavventure di Monsieur Ballon
L'Albero
S.O.S
La caduta d'Icaro
Flash
Esilio
La casa salvatrice
Homo Sapiens
Nessuno
La conquista della libertà
Epilogo
NOTE
*1. La Fonetica Combinatoria
*2. Gli assistenti di Étienne Decroux
*3. Il padre del mimo moderno e Thomas Leabhart
*4. Étienne Decroux, A. Appia e M. De Marinis
*5. E. G. Craig, A. Appia, J. Copeau e Étienne Decroux
*6. Il Mimo Corporeo e L'atletismo affettivo d'Artaud
*7. Mimo Soggettivo e Mimo Astratto
*8. Il Mimo Astratto e Antonin Artaud
*9. Il concetto di Corpo-pensiero
*10. La linguistica e la Fonetica Espressiva
*11. Arte e linguaggio
*12. L'originale e la copia
*13. L'accademismo del Mimo Corporeo
*14. Il selvaggio e il domare
*15. Jerzy Grotowski e Antonin Artaud
*16. Jerzy Grotowski e Étienne Decroux
*17. Sbattere o non sbattere la porta
*18. Maestro creatore e praticante
*19. Lettera a Étienne Decroux
*20. Tecnica e creatività
*21. I prestiti della tecnica grotowskiana
*22. Manuale del perfetto grotowskiano
*23. La strategia di Jerzy Grotowski
*24. Il Corpo Energetico e il corpo sottile
*25. Il concetto di Energia
*26. La tecnica del bastone e della stoffa all'O. Teatret
*27. Il Corpo Risonante e Émile Jaques-Dalcroze
*28. La respirazione e Jerzy Grotowski
*29. Recupero di Étienne Decroux
*30. Antropologia o Etnologia Teatrale
*31. I prestiti di Eugenio Barba
ESTRATTI
Incontro con Etienne Decroux
...Dopo aver spinto il portone dell'edificio ed essermi informato
presso la portinaia, attraversai l'androne d'ingresso che dava
accesso a un piccolo giardino interno dove, in fondo al vialetto
principale, sorgeva una casetta di mattoni rossi, simile a quelle
che René Magritte amava raffigurare nelle sue tele. Bussai
alla porta. Mi aprì un uomo corpulento con indosso una
vestaglia. Aveva lo sguardo penetrante, la fronte larga, il
naso aquilino, i capelli lunghi. Mi salutò con voce calda,
mi strinse la mano con fermezza, e mi fece entrare in una stanza,
che altro non era se non la cucina. Il mobilio era di una semplicità
estrema: un tavolo di formica, una credenza di legno massiccio,
un lavello di ceramica, una cucina a gas e una stufa a carbone.
Ero stupefatto di essere accolto da Etienne Decroux in persona
in un ambiente tanto anonimo.
Avendogli comunicato la mia intenzione di frequentare la sua
scuola, chiamò sua moglie Suzanne che era incaricata
di accogliere i nuovi allievi.
Mi iscrissi all'istante.
L'indomani, attraversai di nuovo il cortile interno del palazzo
per bussare alla porta della casetta di mattoni rossi. Entrai
in cucina, dove fui invitato a lasciare le scarpe insieme a
quelle degli altri allievi intorno alla stufa a carbone. Salii
nella mansarda che fungeva da spogliatoio. Mi infilai una calzamaglia
nera e scesi nella cantina, adibita a studio, coi suoi 60 metri
quadri di linoleum, la sua luce al neon, i suoi muri azzurri,
la sua parete a specchio, la sua tenda di fondo bianca, il suo
unico vasistas e il suo orologio a muro. Presi posto in un angolo
cercando di seguire gli esercizi che una decina di allievi eseguivano
nel più profondo silenzio. Scoprivo di avere al di sotto
del cranio una spina dorsale estesa fino all'osso sacro, un
torace in cui batteva il mio cuore e il mio respiro, una vita
flessuosa, un bacino saldo, delle gambe erette, dei piedi appoggiati
a terra, delle braccia sospese, delle mani ramificate e tutto
un corpo completamente estraneo ai comandi della mia mente.
Questa distanza tra la mia volontà e i movimenti imprecisi
del mio corpo mi fece capire immediatamente che il tempo necessario
per accedere alle basi dell'espressione corporea non si doveva
contare in mesi, come presumevo, ma in anni. Soltanto la perseveranza
poteva permettermi di accedere un giorno alla conoscenza di
quella materia espressiva favolosa che è il corpo umano.
Le
conferenze di Etienne Decroux
...Le lezioni si svolgevano dal lunedì al sabato ed erano
suddivise in due classi distinte: il corso regolare della sera
in cui 'les nouveaux et les anciens' [i 'nuovi' e gli 'anziani'],
come li chiamava Decroux, stavano assieme e quello del mattino,
riservato agli 'anziani'. La lezione del venerdì sera,
dedicata all'improvvisazione, era sempre preceduta da un'introduzione
che noi chiamavamo conferenza. Essa doveva presentare
il tema che avremmo trattato, ma spesso sconfinava dal suo soggetto
trascinandoci in sfere poetico-filosofiche.
Quei momenti di riflessione divagante erano appassionanti. Nessuno
poteva sottrarsi al fascino della personalità d'Etienne
Decroux. Era il primo a improvvisare poiché affrontava
quegli incontri senza note scritte e, presumo, senza neppure
un canovaccio. Visibilmente adorava abbandonarsi ai discorsi
non premeditati.
Lo rivedo, seduto di fronte ai suoi allievi, con le mani posate
sull'immancabile consolle che accompagnava ognuna delle sue
conferenze e la cui fattura era cosi delicata che temevo si
spezzasse sotto la pressione della sua stretta. Amava toccarla,
accarezzarla, stringerla per meglio afferare l'idea che cercava.
Lo rivedo, gli occhi socchiusi, un velo di nebbia nello sguardo,
la testa oscillante all'indietro, soffiare e inspirare con forza
dalle narici dilatate come per eliminare qualche polvere cerebrale
e annusare più liberamente l'odore del suo pensiero nascente.
Poi, all'improvviso, uscendo dal torpore, si sporgeva in avanti,
acchiappava le parole con gli occhi e iniziava a parlarci
Le sue conferenze non erano mai circoscritte entro i limiti
di un enunciato teorico o di una dimostrazione didattica. Erano
ogni volta la testimonianza di un vissuto. Non c'era scissione
tra la concezione e la pratica. L'idea della sua arte, la costruiva
giorno per giorno, nel proprio corpo, attraverso lo sforzo del
movimento. La scuola non era altro che l'anticamera del suo
teatro a venire. Voleva costruire un nuovo attore per far sorgere
un nuovo teatro. Un attore corporeo per un teatro del corpo:
il Mimo Corporeo.
Il Mimo Corporeo e il teatro
Etienne Decroux viene a torto presentato come il padre del mimo
moderno. Non esiste alcuna filiazione diretta tra la sua ricerca
artistica e la stirpe dei Pierrot, da Gaspard Debureau ai mimi
Séverin e Georges Wague. Il Mimo Corporeo non è
assolutamente una 'modernizzazione' del mimo tradizionale. È
nato nell'ambito della scuola del Vieux-Colombier ed è
il risultato di una nuova pedagogia formativa dell'attore incentrata
sulla rivalutazione dell'espressione fisica.
Prima di consacrarsi all'arte del movimento, Etienne Decroux
è stato attore. Ha lavorato sotto la direzione di Jacques
Prévert, Jacques Copeau, Gaston Batty, Louis Jouvet,
Antonin Artaud e, soprattutto, nella compagnia di Charles Dullin.
La sua ricerca si è sviluppata sotto l'influsso di Edward
Gordon Craig e di Adolphe Appia, i cui scritti auspicano il
ritorno a una visualizzazione suggestiva della scena in totale
contrasto con il naturalismo di Antoine e il realismo psicologico
di Stanislavskij.
Fin dal 1931, nell'articolo Ma Définition du théâtre
[La mia definizione del teatro], Etienne Decroux si pronuncia
a favore della supremazia dell'arte dell'attore, dichiarando:
Il teatro è arte d'attore. Contro l'egemonia
dell'autore e del regista, Decroux pone l'attore al centro della
creazione teatrale. Ma, soprattutto, individua nel corpo l'elemento
fondante e regolatore del linguaggio scenico che testo e scenografia
vengono a completare in un rapporto di stretta necessità
e dipendenza. La presenza fisica dell'attore è dunque
il germe a partire dal quale tutta l'arborescenza teatrale prende
forma. Decroux chiamò la visione di questo teatro: Teatro
Completo, in opposizione al concetto di Teatro Totale che ambisce
a una sintesi tra le arti sotto la supervisione del regista,
grande officiante dell'opera.
L'Energia
Linfa o necessità interiore,
entrambe quelle formulazioni si aprivano sulla nebulosa psichica
sorgente di tutti i linguaggi e di tutti gli slanci espressivi.
Più la fissavo, meno ero in grado di nominarla. A seconda
dell'angolatura dell'osservazione interpretativa, assumeva forme
diverse. Poteva emergere dalla lucidità cristallina,
tralucere attraverso il velo del sogno, risalire lungo le pieghe
della memoria o filtrare all'estremità dei sensi. Ogni
volta, le sue apparizioni sembravano essere i riflessi di un'unica
e medesima realtà che mi sfuggiva.
Di fronte a quell'idra dalle mille teste, eternamente ipotetica
e fugace, tentavo di coglierne mentalmente la matrice originaria.
Progressivamente, le definizioni si scomponevano per dissolversi
in una sostanza più fondamentale che chiamavo Energia.
L'Energia contiene in potenza tutti gli stati di coscienza e
non-coscienza. In essa, le molteplici sfaccettature della nostra
interiorità non sono più formule statiche appuntate
con uno spillo alle pareti del ragionamento discorsivo. Diventano
raggi eccentrici di un unico nucleo di luce in rifrangenza.
Ma, soprattutto, la nozione di Energia, grazie alla sua assoluta
integrazione nella materia, permette di rompere il recinto introspettivo
della psiche, radicandola al cuore del nostro organismo biologico.
In virtù di quest'equazione fusionale, il pensiero non
è più unicamente il risultato di un processo neuronale
confinato nelle circonvoluzioni della corteccia cerebrale, come
tenta di dimostrare la neurologia, ma emana dalla nostra totalità
organica, poiché il flusso elettromagnetico che lo anima
sorge dalla nostra stessa struttura atomica e cellulare.
L'Energia è una e molteplice, etere e materia. È
la sorgente stessa del soffio vitale che attraversa al contempo
l'Essere e l'Esistente, la mente e il corpo. Questo concetto
diventerà il nucleo centrale a partire dal quale tutta
la mia tecnica del Corpo Energetico si svilupperà nel
corso degli anni a seguire.
Il Mimo Astratto
L'ascolto dell'interiorità nella pratica del Mimo Corporeo
era ancora più evidente quando Decroux ci proponeva di
improvvisare sul tema del pensiero. Insieme al duetto
amoroso, era uno dei suoi temi prediletti. Non si stancava
di tornarci con un'insistenza che talvolta rasentava l'ossessione.
Ne ero entusiasta perché, in tal modo, esplorava l'aspetto
del Mimo Corporeo per il quale nutrivo il maggiore interesse.
Quello che in un primo tempo aveva chiamato Mimo Soggettivo
e più tardi Mimo Astratto.
Il Mimo Astratto faceva eco nel campo teatrale alla sensibilità
che mi aveva spinto verso la musica e la pittura.
Sono sempre stato affascinato dalla trasparenza innata del linguaggio
musicale. Non racconta niente. La potenza del suo flusso sonoro
fa vibrare la nostra emozione senza passare per il filtro di
una forma tangibile. È magicamente interiorizzata dall'ascoltatore
nell'istante stesso del suo farsi.
Quanto alla pittura, mi aveva aperto le porte dell'astrazione.
Grazie a Kandinskij, non era più al servizio di un soggetto,
ma diventava soggetto. Punti, linee, superfici e colori erano
gli unici materiali palpabili tramite cui doveva transitare
la visione interiore. Il pretesto della raffigurazione era abolito.
Kandinskij esigeva la non-rappresentatività della forma.
Decroux pretendeva la non-rappresentatività dell'azione.
Eliminando il supporto narrativo del proprio atto, l'allievo
era costretto a canalizzare il suo sentito attraverso la sola
realtà muscolare del corpo, come il pittore astratto
la imprime nella sola realtà della materia pittorica.
Gli slanci, i trattenimenti, le tensioni, i rilassamenti, le
aperture e le chiusure dei movimenti dovevano riflettere quelli
del pensiero. Il corpo nello spazio rivelava lo spazio interiore
del corpo.
L'Esaltazione Corporea
Frequentavo ancora la scuola di Etienne Decroux, quando il centro
culturale della città di Bourget, alla periferia sud
di Parigi, mi propose di tenere un laboratorio di Mimo. Naturalmente,
insegnavo la tecnica della Statuaria Mobile, ma volevo anche
valermi di quell'opportunità pedagogica per portare avanti
delle ricerche personali.
Avevo potuto verificare che il comune denominatore di tutta
la tecnica decrousiana era la concentrazione mentale. Focalizzandosi
sull'evento corporeo, essa gettava un ponte tra attività
cerebrale e attività fisica. Ogni articolazione, ogni
muscolo, ogni nervo doveva essere controllato dalla nostra consapevolezza
di agire nello spazio e nel tempo. L'essere fisico si trovava
in tal modo dominato dall'essere mentale e la tecnica del Mimo
Corporeo mi sembrava più una disciplina dello spirito
che una disciplina del corpo.
Per controbilanciare l'ascendente del mentale, sentii il bisogno
di sperimentare un percorso inverso, che partisse dal corpo
per andare verso la mente, facendo appello non più al
controllo ma alla spontaneità.
In un angolo della sala erano accatastati alcuni tappeti da
judo. Dopo averli sistemati in modo che coprissero l'intero
pavimento, chiesi a ogni studente di lasciarsi andare a una
vera e propria esplosione fisica. Le regole dell'esercizio erano
semplici. Non appena l'allievo metteva piede sui tatami, doveva
scatenare tutte le risorse nervose del proprio corpo lanciandosi
in una dinamica ininterrotta di salti, cadute e rotolamenti.
La rapidità dell'esercizio era tale che la premeditazione
dei movimenti risultava impossibile. Ciascuno era costretto
ad affidarsi ai propri riflessi. Il corpo era in tal modo guidato
solo dall'intelligenza dell'istinto. Chiamai quello studio Esaltazione
Corporea.
Il risultato fu sorprendente.
Decroux mi aveva insegnato l'articolazione sintattica del corpo,
ora scoprivo il grido corporeo.
Immediatamente l'analogia con l'animalità si impose e
rammentai quell'assioma: L'uomo è un animale pensante.
Mi attraversò la mente con la folgorazione di un'evidenza.
L'istinto è primordiale! Garantisce la nostra sopravvivenza
biologica e la vivacità dei nostri sensi, senza i quali
nessun pensiero potrebbe nascere.
Il celebre cogito cartesiano - Penso dunque sono
- era reversibile: sono dunque penso.
La reciprocità di quell'assioma poteva essere sintetizzata
nei seguenti termini: sono dunque penso, dunque sono. L'essenza
genera il pensiero che crea la coscienza. La realtà sensoriale
e intuitiva della nostra animalità è la radice
del nostro Io pensante.
Lungi dall'opporsi alla tecnica di Etienne Decroux, l'Esaltazione
Corporea la completava. Anzi, la giustificava. Il controllo
è legittimo unicamente se interviene su uno stato che
sfugge ad ogni controllo. Suppone, a monte, l'incontrollabile.
Il risveglio dell'animale dormiente in ciascuno di noi si rivelava
condizione indispensabile alla sua doma.
Si addomestica solo ciò che è selvaggio e il selvaggio
è la bellezza del domare.
La conferenza di Jerzy Grotowski
Nel 1966, nella cornice del Festival del Théâtre
des Nations, il pubblico parigino fece la scoperta del Teatr
Laboratorium di Jerzy Grotowski. Lo spettacolo Il Principe
Costante venne unanimemente salutato dalla critica come
una vera e propria rivelazione. Non essendo riuscito a vederlo,
perché le repliche fecero il tutto esaurito, assistei
alla conferenza di Grotowski al Centro Nazionale per la Ricerca
Scientifica.
Il luogo non era stato evidentemente scelto a caso. Non si trattava
dell'ennesima conferenza stampa nel foyer di un teatro, ma di
un incontro all'interno di un tempio della ricerca. Grotowski
voleva sottolineare senza ambiguità il carattere scientifico
del Teatro Laboratorio.
C'era il fior fiore dell'intellighenzia parigina: critici, registi,
attori e docenti universitari
tra cui si aggirava qualche
smarrito spettatore.
Ho un ricordo visivo molto nitido dell'evento, tanto ne rimasi
impressionato.
Nella penombra, vidi arrivare un personaggio austero, vestito
con un completo nero. Era pingue, imberbe, con la carnagione
cerea, i capelli corti, grassi, incollati alle tempie, e gli
occhi nascosti dietro un paio di occhiali da sole dalla spessa
montatura nera. Circondato da alcuni dignitari del C.N.R.S.,
si sedette a un grande tavolo scuro, dove stavano ad attenderlo
una caraffa d'acqua, un bicchiere e un posacenere. Fumava una
sigaretta dopo l'altra e parlava nervosamente con voce nasale
venata di accento polacco, senza che l'ombra di un sorriso venisse
a illuminargli il volto. La sua esposizione era densa, precisa,
implacabile, in un silenzio di piombo. Ci parlò delle
sue ricerche al Teatr Laboratorium di Wroclaw, della sua concezione
del Teatro Povero, della catarsi, dell'attore
santo, della via negativa. Aveva la potenza
di un grande inquisitore e l'ascetismo di un San Francesco.
L'uditorio era sotto ipnosi.
Alla fine della conferenza, gli furono rivolte diverse domande,
in particolare a proposito di Antonin Artaud, dei cui scritti
dichiarava di essere venuto a conoscenza solo di recente.
È pur vero che una stessa pulsazione sanguigna sembrava
unire il suo pensiero al Teatro della Crudeltà
di Artaud.
Da parte mia, ero colpito soprattutto dal parallelismo tra la
sua ricerca e quella di Etienne Decroux.
Ravvisavo nell'articolo La mia definizione del teatro,
che Decroux aveva scritto nel 1931, una prefigurazione delle
tesi di Grotowski. Trent'anni prima, Decroux aveva identificato
nell'arte dell'attore l'essenza del teatro. Aveva letteralmente
anticipato il concetto di Teatro povero, subordinando
la ricchezza di un'arte alla povertà dei suoi mezzi espressivi:
Credo che un'arte sia tanto più ricca quanto più
è povera di mezzi.
Come Grotowski, aveva privilegiato la nozione di spettatore
su quella di pubblico, presentando il proprio lavoro a un uditorio
ancora più ristretto di quello del Teatr Laboratorium
di Wroclaw. Jean-Louis Barrault ne dà testimonianza in
questi termini: Egli [Decroux] ha finito per non volersi
più esibire se non davanti a due o tre persone. Oltre,
diceva, la gente perde il proprio libero arbitrio
Neppure la catarsi grotowskiana era estranea al pensiero di
Decroux: Se il teatro emoziona, è come emoziona
un crimine, quando lo vediamo dalla nostra finestra. Quest'immagine
ricorda la condizione voyeuristica che Grotowski cercava di
indurre negli spettatori, per renderli testimoni attivi dell'azione
e non consumatori passivi dello spettacolo.
Ma di tutti i valori comuni a Decroux e Grotowski, l'intransigenza
artistica mi sembrava essere ciò che li univa più
profondamente. Entrambi propugnavano un'etica di lavoro basata
sul dono di sé, sulla ricerca degli estremi e sul senso
dell'assoluto. Entrambi consideravano l'arte teatrale una scelta
di vita che coinvolgeva la totalità di chi la compiva.
Ricordo l'entusiasmo di Decroux alla lettura di un articolo
su Grotowski uscito sul Nouvel Observateur che aveva
per titolo Un regista che doma l'attore. Mentre
stavo per uscire dalla scuola, Decroux mi interpellò
brandendo il settimanale con aria trionfante: Avete letto?
Un regista che doma l'attore!
Nonostante ciò, Grotowski e Decroux sono fondamentalmente
diversi sul piano della personalità e del metodo. Il
razionalismo decrousiano, impregnato di chiarezza discorsiva,
è in totale contrasto coi chiaroscuri mistici di Grotowski.
Decroux esalta il dominio dell'istinto da parte della mente,
Grotowski cerca, sotto la maschera del quotidiano, il risveglio
della memoria del corpo nella sua relazione con
l'inconscio. L'articolazione geometrica del Mimo Corporeo si
oppone radicalmente al linguaggio impulsivo degli attori grotowskiani.
Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana
Serge Ouaknine aveva appena terminato un corso di studi al Teatr
Laboratorium di Wroclaw. Di ritorno a Parigi, voleva creare
un gruppo teatrale per mettere in scena il Prometeo incatenato
di Eschilo. Dopo aver riunito attorno a quel progetto vari allievi
della scuola Jacques Lecoq, aveva sollecitato la partecipazione
anche di quelli della scuola di Etienne Decroux. Accettai di
unirmi al suo atelier di creazione con grande entusiasmo. Mi
si offriva finalmente l'opportunità di sperimentare l'allenamento
elaborato da Grotowski.
Il gruppo contava una quindicina di persone in tutto. Due o
tre volte alla settimana, ci ritrovavamo di sera in una palestra
alla periferia di Parigi. Serge ci introduceva alla pratica
degli esercizi fisici e plastici messi a punto da
Ryzsard Cieslak.
Il lavoro si suddivideva in tre fasi.
La prima era incentrata sull'apprendimento ginnico degli esercizi,
la seconda sulla loro concatenazione all'interno di una sequenza
che dovevamo liberamente definire e la terza sull'emersione
delle nostre motivazioni personali.
Quella sovrapposizione di vincoli ginnici e motivazioni personali
all'interno di una partitura gestuale prestabilita nel corso
della terza fase del lavoro provocava in me un conflitto.
Se l'obiettivo dello studio era far emergere una potenzialità
creativa nutrita da motivazioni personali, allora rivendicavo
il diritto di creare la partitura al di fuori della concatenazione
degli esercizi.
Se, al contrario, l'obiettivo era lo studio degli esercizi,
allora preferivo ignorare la ricerca delle motivazioni per concentrarmi
esclusivamente sull'apprendimento dei movimenti nella loro dimensione
ginnica.
La tecnica e la creazione rispondono a esigenze troppo diverse
per essere affrontate simultaneamente. La tecnica esige disciplina,
al fine di acquisire la maestria degli esercizi. La creazione,
al contrario, esige la libera esplorazione del proprio capitale
immaginativo. Non è sottoposta alle regole oggettive
della tecnica, ma alla sola interiorità soggettiva dell'attore
di cui occorre esaltare le risorse.
Quando l'artista crea, deve dimenticare la tecnica per entrare
completamente nel mondo del sentire che è la sorgente
della sua ispirazione. Non ci si dà se non dimenticando
se stessi.
Il talento, diceva Montesquieu, è un
dono che Dio ci ha fatto in segreto e che riveliamo senza saperlo.
La presa di coscienza dei mezzi tecnici può intervenire
a monte dell'atto creativo, o eventualmente a valle, mai durante
il suo esplicarsi.
L'apprendimento di una lingua è sempre anteriore alla
nostra capacità di esprimerci attraverso di essa. Non
appena un idioma ci diventa familiare, non cerchiamo più
le parole per comunicare il nostro pensiero, sono le parole
a venirci incontro per esprimerlo.
Ho sempre tracciato una frontiera netta e precisa tra l'oggettività
del lavoro tecnico e la soggettività del lavoro creativo.
Inoltre, ero disorientato dal fatto che l'insieme degli esercizi
proposti da Serge fosse in effetti preso a prestito da varie
discipline: acrobazia, Hatha-Yoga, Katakali, Ritmica
Jerzy
Grotowski non ne fa mistero e molti suoi scritti fanno riferimento
all'integrazione di tali pratiche nella sua sperimentazione
teatrale.
Niente a che vedere con Decroux che aveva fatto tabula rasa
di qualsiasi esperienza pregressa prima di costruire il proprio
metodo. Come hanno fatto Delsarte, Stanislavski, Dalcroze, Laban,
Graham e altri ancora nei campi di ricerca loro propri.
Anche se Grotowski adattava ai propri fini gli esercizi che
prendeva a prestito, quell'adattamento non poteva in nessun
caso essere considerato una tecnica originale. Era solo un innesto.
Gli esercizi che utilizzava erano stati concepiti per finalità
completamente diverse dalle sue. Se le tecniche dell'acrobazia,
del Katakali e della Ritmica appartengono ancora alla cerchia
delle arti dello spettacolo, lo Hatha-Yoga - finalizzato alla
ricerca di un'armonia interiore attraverso l'introspezione meditativa
- si colloca a mille miglia di distanza dal conflitto esistenziale
caratteristico dell'arte drammatica.
Contrariamente a quanto si può pensare, Grotowski non
ha elaborato un nuovo metodo formativo per l'attore, trasmissibile
di generazione in generazione. A meno che il suo metodo consista
nel non averne e che gli esercizi da lui proposti non siano
altro che pretesti privi di finalità propria.
Varie sue dichiarazioni lo fanno supporre: Senza dubbio
si può accrescere la quantità di dettagli plastici,
si può, passo dopo passo, trovarne altri [
] Si
possono iniziare gli esercizi su un'altra base. Si può
trovare tutt'altro programma di dettagli [
] Non è
il tipo di dettagli iniziali ad essere importante, ma lo spirito
della cosa.
Tutti gli elementi dei nostri esercizi sono sostituibili
possiamo senza dubbio ritrovare la base con altri pretesti.
In quest'ottica, gli esercizi fisici e plastici
non sono altro che sequenze di movimenti assemblati insieme
al solo scopo di costituire una base di lavoro per l'attore.
Possono essere sostituiti da altre sequenze-pretesto perché
l'importante non è il dettaglio fisico ma
la memoria del corpo che ciascuno deve saper risvegliare
attraverso il dialogo con se stesso.
L'essenziale è spingere l'attore ai suoi estremi affinché
la maschera delle sue difese si rompa, i suoi blocchi
brucino e l'attore si riveli attraverso
l'azione nella sua intimità più profonda.
Ciò non dipende dall'esercizio in sé ma da come
l'esercizio viene realizzato e guidato. Il come non si impara
e non è cirscoscritto in un metodo predeterminato e trasmissibile.
Nasce da un intimo ascolto tra colui che guida e colui che agisce,
dal semplice rapporto tra uomo e uomo che nessuna forma di trascrizione
è in grado di fissare.
In mancanza di un metodo, Grotowski propone un'etica del lavoro
che va ben al di là di un semplice processo tecnico.
Il Teatro Povero è frutto di un'esperienza umana, dell'incontro
miracoloso in un luogo e in un tempo dati tra una personalità
eccezionale e una costellazione di collaboratori altrettanto
eccezionali.
Il Teatro Povero è unico e inviolabile poiché
é Jerzy Grotowski, e lui soltanto, possiede la chiave
della sua risurrezione.
Grotowski ha scritto: La mia terminologia è sorta
dalla mia esperienza e ricerca personnale. Tutti dobbiamo trovare
un'espressione, una parola personale, un modo strettamente personale
d'influire sui nostri intimi sentimenti.
Parlava di terminologia, ma mi piace immaginare che in effetti
parlasse del proprio teatro
Perché allora ha pubblicato nel suo libro il descrittivo
degli esercizi come in un manuale?
Manuale che tutti gli apprendisti grotowskiani si sono affrettati
a seguire alla lettera come altrettante ricette che permettevano
di raggiungere lo stato estatico dell'attore santo.
Improvvisamente, ai quattro angoli del pianeta, sono nati gruppi
che si richiamavano al Teatro Povero senza aver mai avuto la
minima esperienza di lavoro diretta col Teatr Laboratorium di
Wroclaw. Erano grotowskiani perché applicavano i precetti
stilati dal Maestro.
Tale divulgazione ha provocato una serie di devianze dal pensiero
di Grotowski. Molto in fretta, i suoi principi si sono trasformati
in schemi e gli stereotipi del teatro convenzionale che Grotowski
voleva abbattere sono stati sostituiti dalle copie stereotipate
del suo teatro.
Su questo punto, Decroux ha avuto l'accortezza di non inserire
nel suo libro la descrizione della propria tecnica ad uso dei
praticanti. Ha preferito dichiarare: Chi vorrà
la luce non dovrà che studiare.
La tecnica di un'arte è naturalmente legata alla sua
pratica. Non può essere trascritta, letta e applicata.
Esige una trasmissione da Maestro a allievo al fine di preservarne
lo spirito, la sostanza che si dà e si accoglie nell'incontro
del vivente col vivente. La famosa tradizione segreta del teatro
Nô di Zeami non era tenuta segreta per il gusto del mistero,
ma per rispetto verso la tradizione orale dell'insegnamento
che garantiva la trasmissione del sapere attraverso il legame
esclusivo dell'esperienza umana. Persino in cucina, una ricetta
dettagliata non garantisce il migliore piatto.
Tra il sapere e il fare, c'è di mezzo la maniera, che
non si apprende ma si sperimenta soltanto.
E noi tutti sappiamo che l'arte sta nella maniera.
L'acrobazia con Romano Colombaioni
Prendevano parte al seminario anche altri pedagoghi invitati
da Eugenio Barba. In particolare il clown Romano Colombaioni,
venuto direttamente da Roma per dirigere un laboratorio di acrobazia.
Non mancai di seguire le sue lezioni.
Con piacere ritrovavo nella dinamica dei movimenti acrobatici
i principi dell'Esaltazione Corporea. Nessun salto senza choc.
Nessun lancio senza risonanza. Nessuna tensione
muscolare senza rilassamento.
Romano non spiegava niente. Il suo metodo pedagogico si riassumeva
nella formula magica: energia, energia, energia!.
La urlava con un riso feroce, sferzandoci come bestie. Pungolati
dai suoi richiami, ci lanciavamo alla cieca nelle capriole più
incredibili, affidando al nostro istinto il compito di salvarci
in extremis da quella follia suicida. La nostra noncuranza era
pari alla nostra temerarietà. Cercavamo disperatamente
di infrangere le leggi della gravità schizzando in aria
come petardi di luna park. Ma l'attrazione terrestre aveva sempre
l'ultima parola e precipitavamo a terra maledicendo Isaac Newton.
Quando finalmente, dopo lunga e tenace applicazione, riuscivamo
a volteggiare ricadendo in equilibrio sui piedi, ci rituffavamo
immediatamente nel movimento acrobatico per memorizzare fisicamente
la catena degli impulsi. Vittoria! Gioia! Piacere di volare!
L'acrobazia è una fantastica preparazione ludica per
l'arte dell'attore. Sviluppa la coordinazione del movimento
fondendo i tre aspetti fisiologici fondamentali del nostro corpo:
articolazione/flessibilità - muscolo/tonificazione -
nervo/stimolo.
Ma, soprattutto, permette di liberare la nostra spontaneità
mettendola a confronto con le basi elementari dell'azione: decisione,
proiezione, impegno, rischio e precisione.
Queste qualità, tipiche del movimento acrobatico, sono
altrettanto necessarie all'arte dell'attore.
Non c'è espressione viva senza la scintilla dell'impulso
decisionale, senza proiezione verso l'altro, senza impegno totale
della nostra identità, senza un'assunzione di rischio
che forzi i nostri limiti e senza precisione che assicuri l'efficacia
dei nostri atti.
Stimolando queste cinque qualità sul piano fisico, l'acrobazia
ne prepara il passaggio sul piano psicologico. Fortifica la
nostra volontà, rafforza la nostra apertura e rinsalda
la fiducia nel nostro istinto senza il quale l'incontro con
noi stessi e con gli altri sarebbe impossibile.
Il comico e il tragico
Lungi dall'opporsi, l'attore comico e quello tragico sono uniti
nella medesima etica. Entrambi sono utopisti, paria, marginali
in lotta contro il conformismo. Entrambi sono in rottura col
proprio ambiente. La loro condizione esistenziale è il
conflitto.
Ma mentre l'attore tragico si identifica al dramma e usa la
sua forza passionale per abbattere l'ostacolo, l'attore comico
si distanzia da quell'ostacolo, lo aggira e lo destabilizza
attraverso la corrosione del sarcasmo. Uno sublima la resistenza,
l'altro glorifica la derisione.
Le due maschere che ornano da secoli il frontone dei nostri
teatri appartengono a un unico volto enigmatico i cui occhi
sono le due finestre del nostro sguardo aperto sul mondo.
L'azione di strada
Un giorno, mentre uscivo dalla sala prove ancora intriso del
personaggio di Monsieur Ballon, mi sorpresi a guardare la hall
del teatro come uno spazio inesplorato. Bastava un piccolo scatto
mentale perché lo sguardo passasse dal riconoscere le
cose all'oblio della loro verosimiglianza. Appena la mia mente
scivolava nel vacuo, il luogo sfuggiva alla mia comprensione
e ogni particolare dell'arredo risvegliava la mia curiosità,
suscitava il mio stupore. Dentro e fuori dallo studio, il personaggio
continuava a esistere di per sé, e ogni incidente nel
suo percorso gli offriva nuove opportunità per trasfigurare
gli eventi e rafforzare la propria presenza.
Quel contatto diretto con la realtà bruta mi sembrava
un buon esercizio e l'idea di mettere Monsieur Ballon 'in mezzo
alla strada' ha germogliato. Fu così che un pomeriggio,
accompagnato dal mio ombrello, dalla valigia e dalla carrozzina,
mi sono ritrovato sotto un cielo plumbeo all'imboccatura della
strada pedonale di Holstebro. Nessun attore proveniente dall'austero
Teatro Laboratorio di Eugenio Barba si era mai avventurato per
le strade cittadine.
Immediatamente, i passanti mi identificarono come un'anomalia
nella quiete del paesaggio urbano. Alcuni fingevano di non vedermi,
altri mi guardavano interdetti, non sapendo se era il caso di
chiamare la polizia o l'ospedale psichiatrico. Dei bambini sorridendo
mi si avvicinarono divertiti. Solo un ubriacone mi venne incontro
credendo di vedere in Monsieur Ballon un fratello di sangue.
Tentò di dialogare con lui, ma i vapori della birra gli
avevano a tal punto alterato i sensi che ogni possibile relazione
era compromessa. Preferivo la mia solitudine alla sua compagnia,
dialogare coi manichini nelle vetrine, le strane strisce bianche
sull'asfalto e i lampioni spenti.
La diffidenza della gente non mi contrariava affatto. La loro
distanza si sommava alla mia e amplificava il mio stupore nei
loro confronti.
Malgrado i risultati poco gloriosi di quella prima incursione
in territorio urbano, ero convinto che in futuro le azioni di
strada avrebbero dovuto accompagnare le rappresentazioni in
sala. Non bastava accogliere il pubblico in teatro, bisognava
anche sollecitarlo nel suo habitat naturale. Non spostando lo
spettacolo dal palcoscenico alla strada, né tracciando
sull'asfalto il cerchio magico di uno spazio teatrale, ma facendo
della strada stessa il vero spettacolo. In questo contesto,
l'attore lavora senza rete. È un pescatore di correnti
d'aria e deve saper cogliere al volo il fortuito laddove si
presenta, trarre profitto da qualsiasi pretesto affinché
una poetica scaturisca dal quotidiano. Non c'è miglior
scuola dell'imprevedibile.
Scendendo dal palco per mescolarsi alla folla, l'attore comico
si ricollega alla tradizione ancestrale della sua arte, popolata
di giocolieri e saltimbanchi. Da sempre e in ogni civiltà,
il comico è figlio del popolo. È cresciuto nelle
piazze e non nei salotti. Ha sempre rappresentato la rivincita
dei diseredati sui benestanti. Fare della strada il proprio
teatro significava ritrovare le radici viventi dell'agitatore
da cui l'attore proviene.
Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare.
Avevo sempre affrontato le rappresentazioni di Mimo Astratto
col peso del mondo sulle spalle, nella sofferenza e nella lacerazione.
Ora mi sorprendevo a non stare nella pelle dietro il sipario
come un bambino eccitato alla vista di un nuovo giocattolo.
Per la prima volta, il famoso jeu dell'attore (In
francese la parola jeu, gioco, significa
anche recitazione) diventava realtà. La rappresentazione
non era più un rito sacrificale, ma une partie
de plaisir [una partita di piacere]. Mi divertivo come
un matto trascinando il pubblico nel mio delirio. Fioriva una
nuova estasi, anch'essa impastata di sudore e di sforzi, di
rigore e integrità, ma attraversata dalla cometa del
riso che, di rimbalzo in rimbalzo, sprizzava da uno spettatore
all'altro come un'onda travolgente.
L'ebbrezza della risata che unisce le disparità degli
uomini in un unico slancio di libertà ritrovata. Il miracolo
della risata che placa le nostre angosce, le nostre lamentele
e i nostri rancori. Il furore della risata che smaschera i nostri
tabù e la nostra alienazione. La bellezza della risata
dai denti scintillanti come stelle di un cielo sognato.
Quel riso, non lo potevo ripudiare.
Portava e mi portava gioia. Penetrava nei cuori, abbatteva le
barriere tra le generazioni, le classi sociali e le razze, restituendo
al teatro la sua vocazione popolare.
Quel teatro, non lo potevo abbandonare.
La ricerca fondamentale
Tale cambiamento di rotta non modificava in nulla la mia ricerca
fondamentale sull'arte dell'attore. Indipendentemente dal linguaggio
adottato, la conoscenza dello strumento fisico-vocale restava
una priorità assoluta.
Che l'attore opti per la tragedia o per la commedia, le basi
sono sempre le stesse: un'energia, un corpo, una voce. La fusione
di queste tre componenti é il fondamento comune a tutti
gli orientamenti artistici. L'attore deve appartenersi prima
di potersi dare.
Lo stesso vale per il musicista. Durante la sua formazione,
non impara un genere musicale ma la padronanza del suo strumento
che gli consentirà di suonare ogni tipo di musica a piacimento.
Malgrado l'irruzione del comico, restavo fedele al mio campo
d'indagine sul Corpo Energetico e il Corpo Vocale.
La vera creazione non risiedeva nella finzione momentanea degli
spettacoli che potevo elaborare, ma nella scoperta dell'arte
dell'attore e più profondamente dei principi immanenti
al dialogo dell'uomo con se stesso.
Questa ricerca fondamentale è tuttora il filo di Arianna
del mio percorso artistico. Ignorata dal pubblico, è
la costante che ha attraversato in segreto la varietà
dei miei spettacoli destinati a consumarsi con l'aria del tempo.
Il Teatro Corporeo
Di fronte all'apparizione inopinata di Monsieur Ballon, il termine
'Mimo Astratto', che avevo utilizzato fino a quel momento per
presentare il mio lavoro, non era più adeguato.
Peraltro, questo termine non mi aveva mai veramente convinto.
La nozione di 'astratto' non poteva incidere più di tanto
su quella di mimo, inevitabilmente legata all'imitazione e all'illusionismo
gestuale. Avendo studiato con Etienne Decroux, maestro del più
grande mimo planetario - Marcel Marceau - dovevo essere un mimo.
Ero dunque costretto a trovare una nuova terminologia in grado
di delimitare meglio la specificità della mia ricerca.
Al fine di evitare qualsiasi malinteso, doveva tassativamente
escludere la parola mimo e integrare la parola teatro.
I termini di Teatro gestuale e Teatro non
verbale che circolavano all'epoca non mi soddisfacevano
perché il personaggio di Monsieur Ballon faceva uso della
parola e, se i miei spettacoli di Mimo Astratto rimanevano silenziosi,
il progetto del Teatro Astratto che avevo in mente doveva includere
la voce.
L'unico concetto a cui aderivo pienamente era quello di Teatro
Completo di Etienne Decroux. Quando affiancai mentalmente le
espressioni Teatro Completo e Mimo Corporeo,
mi parve possibile un connubio tra le due. Il Teatro Completo
diventava il Teatro Corporeo. L'aggettivo corporeo
giustificava l'assenza di riferimenti all'espressione vocale
che il sostantivo teatro conteneva virtualmente.
Inoltre, quella nuova denominazione non escludeva nessuna alternativa.
Poteva comprendere sia il teatro tragico che quello comico,
sia quello astratto che quello narrativo. Non si riferiva a
uno stile ma alla necessità di strutturare la totalità
del linguaggio teatrale a partire dalla realtà corporea
dell'attore.
Nel 1973, il termine Teatro Corporeo era totalmente
inusitato. Da quel momento, tutte le mie creazioni sarebbero
state presentate all'interno di questa cornice. I riferimenti
al mimo furono sistematicamente soppressi dai miei comunicati
stampa e programmi di sala. Arrivai persino a stipulare una
clausola contrattuale che costringeva gli organizzatori a promuovere
i miei spettacoli con l'esclusiva dicitura di Teatro Corporeo.
Potevo sperare così di imporre un nuovo concetto teatrale
in armonia con le mie aspirazioni artistiche.
Non servì a nulla.
La critica continuava a parlare del mimo Lebreton. La mia impotenza
era totale ed è rimasta tale fino ad oggi malgrado le
mie dichiarazioni contro quest'arte mimica che mi si incolla
alla pelle come la scabbia.
Col tempo mi sono rassegnato.
Avrei forse dovuto nascondere i miei anni di formazione con
Etienne Decroux?
Per onestà morale e professionale, mi sono sempre rifiutato
di farlo, esponendo senza ambiguità la mia filiazione
al suo insegnamento.
Personalmente, non ho mai smesso di rivendicare la mia appartenenza
all'arte dell'attore. Troppo spesso si dimentica che l'attore
è colui che agisce, non colui che parla;
che l'onnipotente Verbo della Bibbia a cui fanno riferimento
i drammaturghi per imporre l'egemonia del parlato indica, sul
piano grammaticale, il fatto e non l'idea del fatto, il fulcro
dinamico del pensiero che solo l'azione fisica può tradurre.
La stessa parola teatro, che noi assimiliamo alla
declamazione di un testo d'autore, etimologicamente significa
luogo dove si contempla.
Non abbiamo forse l'abitudine di dire che andiamo a sentire
un concerto e a vedere uno spettacolo?
Se di fronte a una rappresentazione teatrale, dovessimo esigere
dallo spettatore di scegliere tra ascolto e sguardo, senza dubbio
privilegerebbe la vista rispetto all'udito.
La natura profonda del teatro risiede nell'azione che si offre
alla vista degli spettatori. Rinunciare al linguaggio verbale
non significa obbligatoriamente rivestire i panni stilistici
del mimo. Al contrario, significa denudarsi di tutti gli apparati
del teatro per tornare alla sua origine prima: l'atto. L'atto
radicato nel corpo, proiettato nel movimento, stimolato dal
pensiero, assertore di una presenza. L'atto come luogo di passaggio
tra donare e ricevere. L'atto come unica possibile via d'uscita
di fronte all'imperiosa necessità di esistere. L'essenziale
è lì: che l'atto sia vivo e integri nell'istante
della propria realizzazione la totalità di colui che
agisce. Il resto è superfluo, analisi teoriche e valutazioni
tecniche che non saranno mai in grado di rivelare l'inafferrabile:
il vissuto nell'immaginario.