PRESENTAZIONE
In uno scritto, al contempo autobiografia
e saggio, Yves Lebreton ci invita a cogliere le "sorgenti"
ispiratrici della sua ricerca artistica. Traccia le tappe del
suo impegno sulla via elitaria del Teatro Astratto il cui assolutismo
lo spingerà ad intraprendere la propria "desacralizzazione"
tramite la sovversione del comico e il teatro popolare. Distante
dalle convenzioni storiche, ripensa l'insegnamento di Etienne
Decroux nel contesto del teatro contemporaneo, provocando inattesi
confronti tra Edward Gordon Craig, Adolphe Appia, Emile Jaques-Dalcroze,
Jacques Copeau, Antonin Artaud e Jerzy Grotowski. Non senza
spirito critico, analizza le basi dell'Antropologia Teatrale
di Eugenio Barba. Sorprendentemente per un artista del silenzio,
il suo studio della voce incentrato su i ritmi respiratori e
il significato originario dei fonemi, lo conduce ai confini
del linguaggio primario. Ma soprattutto, la sua inesauribile
necessità di discernere al di là dell'attore "l'uomo
nella sua essenza", gli permette di svelare le "energie"
viventi dell'espressione umana. Le sue tecniche del "Corpo-Energia" e del "Corpo--Vocale" in simbiosi
con i quattro Elementi, i regni della natura, il cromatismo
dei colori e dei suoni, costituiscono l'ossatura di una metodologia
totalmente inedita per l'attore dove non si tratta più
di acquisire un sapere, ma di scoprire le potenzialità
dell'Essere che sono le fondamenta di ogni individualità.
INDICE
Premessa
Prologo
Infanzia
Il Jazz
La chitarra
Il violoncello e il piano
Abbandono degli studi secondari
La scuola preparatoria per l'insegnamento del disegno
La compagnia teatrale di Monsieur Rubac
I corsi d'arte drammatica Perinetti
Spettacolo poetico
Incontro con Étienne Decroux
Rinuncia alla musica
Il Mimo Corporeo
Le conferenze di Étienne Decroux
Il Mimo Corporeo e il teatro
Il poeta ginnasta e l'attore creatore
La Statuaria Mobile
La metodologia della Statuaria Mobile
Analisi della Statuaria Mobile
Il corso degli anziani
Il dinamo-ritmo e il processo interiore
Le improvvisazioni e la linfa
L'Energia
Il Mimo Astratto
Il Mimo Astratto e la pantomima
L'atelier con Ingemar Lindh
Il Mimo Vocale
La dizione e il canto
Ricerca sul linguaggio
Dissenso
Stile e tecnica
Maximilien Decroux e Jacques Polieri
L'Esaltazione Corporea
La conferenza di Jerzy Grotowski
Akropolis
Incontro con Eugenio Barba
Ferai
Étienne Decroux e Eugenio Barba
Espulsione dalla scuola di Étienne Decroux
Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana
Il Bauhaus e Oscar Schlemmer
Buster Keaton
I quattro Elementi e cinque studi di Mimo Astratto
Abbandono dell'insegnamento del disegno
Il teatro professionale
Creazione dello Studio 2
L'acrobazia con Romano Colombaioni
La maschera di Jerzy Grotowski
Ostinazione II
L'elaborazione della tecnica del Corpo-Energia
Dialogo e l'Oggetto Corporeo
Realizzazione del film Il Mimo Corporeo
Risonanza e il Corpo Risonante
La metamorfosi di Jerzy Grotowski
Possessione e incontro con Gilles Maheu
Sviluppo dell'allenamento fisico
Il risveglio
L'elaborazione della tecnica del Corpo-Vocale
Canto
La rottura
La desacralizzazione
Il Riso di Henri Bergson
Il comico e il tragico
Il senso dell'ironia
Chaplin, Tati, Keaton, il clown e Beckett
Monsieur Ballon e la sua famiglia
La nascita di Eh?...
La scoperta, la virginità, l'infanzia
L'azione di strada
Spettacoli per i bambini
Eh?... o le avventure di Monsieur Ballon
Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare
La ricerca fondamentale
Il Teatro Corporeo
Atti senza parole 1 e 2 di Samuel Beckett
Partenza di Gilles Maheu e Reidar Nilsson
Addio al Teatro Laboratorio e dissoluzione dello Studio 2
Diritto di sguardo
La Gabbia e il Teatro dell'Albero
Boh!... o le disavventure di Monsieur Ballon
L'Albero
S.O.S
La caduta d'Icaro
Flash
Esilio
La casa salvatrice
Homo Sapiens
Nessuno
La conquista della libertà
Epilogo
NOTE
*1. La Fonetica Combinatoria
*2. Gli assistenti di Étienne Decroux
*3. Il padre del mimo moderno e Thomas Leabhart
*4. Étienne Decroux, A. Appia e M. De Marinis
*5. E. G. Craig, A. Appia, J. Copeau e Étienne Decroux
*6. Il Mimo Corporeo e L'atletismo affettivo d'Artaud
*7. Mimo Soggettivo e Mimo Astratto
*8. Il Mimo Astratto e Antonin Artaud
*9. Il concetto di Corpo-pensiero
*10. La linguistica e la Fonetica Espressiva
*11. Arte e linguaggio
*12. L'originale e la copia
*13. L'accademismo del Mimo Corporeo
*14. Il selvaggio e il domare
*15. Jerzy Grotowski e Antonin Artaud
*16. Jerzy Grotowski e Étienne Decroux
*17. Sbattere o non sbattere la porta
*18. Maestro creatore e praticante
*19. Lettera a Étienne Decroux
*20. Tecnica e creatività
*21. I prestiti della tecnica grotowskiana
*22. Manuale del perfetto grotowskiano
*23. La strategia di Jerzy Grotowski
*24. Il Corpo-Energia e il corpo sottile
*25. Il concetto di Energia
*26. La tecnica del bastone e della stoffa all'O. Teatret
*27. Il Corpo Risonante e Émile Jaques-Dalcroze
*28. La respirazione e Jerzy Grotowski
*29. Recupero di Étienne Decroux
*30. Antropologia o Etnologia Teatrale
*31. I prestiti di Eugenio Barba
ESTRATTI
Incontro con Etienne Decroux
...Dopo aver spinto il portone dell'edificio ed essermi informato
presso la portinaia, attraversai l'androne d'ingresso che dava
accesso a un piccolo giardino interno dove, in fondo al vialetto
principale, sorgeva una casetta di mattoni rossi, simile a quelle
che René Magritte amava raffigurare nelle sue tele. Bussai
alla porta. Mi aprì un uomo corpulento con indosso una
vestaglia. Aveva lo sguardo penetrante, la fronte larga, il
naso aquilino, i capelli lunghi. Mi salutò con voce calda,
mi strinse la mano con fermezza, e mi fece entrare in una stanza,
che altro non era se non la cucina. Il mobilio era di una semplicità
estrema: un tavolo di formica, una credenza di legno massiccio,
un lavello di ceramica, una cucina a gas e una stufa a carbone.
Ero stupefatto di essere accolto da Etienne Decroux in persona
in un ambiente tanto anonimo.
Avendogli comunicato la mia intenzione di frequentare la sua
scuola, chiamò sua moglie Suzanne che era incaricata
di accogliere i nuovi allievi.
Mi iscrissi all'istante.
L'indomani, attraversai di nuovo il cortile interno del palazzo
per bussare alla porta della casetta di mattoni rossi. Entrai
in cucina, dove fui invitato a lasciare le scarpe insieme a
quelle degli altri allievi intorno alla stufa a carbone. Salii
nella mansarda che fungeva da spogliatoio. Mi infilai una calzamaglia
nera e scesi nella cantina, adibita a studio, coi suoi 60 metri
quadri di linoleum, la sua luce al neon, i suoi muri azzurri,
la sua parete a specchio, la sua tenda di fondo bianca, il suo
unico vasistas e il suo orologio a muro. Presi posto in un angolo
cercando si seguire gli esercizi che una decina di allievi eseguivano
nel più profondo silenzio. Scoprivo di avere al di sotto
del cranio una spina dorsale estesa fino all'osso sacro, un
torace in cui batteva il mio cuore e il mio respiro, una vita
flessuosa, un bacino saldo, delle gambe erette, dei piedi appoggiati
a terra, delle braccia sospese, delle mani ramificate e tutto
un corpo completamente estraneo ai comandi della mia mente.
Questa distanza tra la mia volontà e i movimenti imprecisi
del mio corpo mi fece capire immediatamente che il tempo necessario
per accedere alle basi dell'espressione corporea non si doveva
contare in mesi, come presumevo, ma in anni. Soltanto la perseveranza
poteva permettermi di accedere un giorno alla conoscenza di
quella materia espressiva favolosa che è il corpo umano.
Le
conferenze di Etienne Decroux
...Le lezioni si svolgevano dal lunedì al sabato ed erano
suddivise in due classi distinte: il corso regolare della sera
in cui 'les nouveaux et les anciens' [i 'nuovi' e gli 'anziani'],
come li chiamava Decroux, stavano assieme e quello del mattino,
riservato agli 'anziani'. La lezione del venerdì sera,
dedicata all'improvvisazione, era sempre preceduta da un'introduzione
che noi chiamavamo conferenza. Essa doveva presentare
il tema che avremmo trattato, ma spesso sconfinava dal suo soggetto
trascinandoci in sfere poetico-filosofiche.
Quei momenti di riflessione divagante erano appassionanti. Nessuno
poteva sottrarsi al fascino della personalità d'Etienne
Decroux. Era il primo a improvvisare poiché affrontava
quegli incontri senza note scritte e, presumo, senza neppure
un canovaccio. Visibilmente adorava abbandonarsi ai discorsi
non premeditati.
Lo rivedo, seduto di fronte ai suoi allievi, con le mani posate
sull'immancabile consolle che accompagnava ognuna delle sue
conferenze e la cui fattura era cosi delicata che temevo si
spezzasse sotto la pressione della sua stretta. Amava toccarla,
accarezzarla, stringerla per meglio afferare l'idea che cercava.
Lo rivedo, gli occhi socchiusi, un velo di nebbia nello sguardo,
la testa oscillante all'indietro, soffiare e inspirare con forza
dalle narici dilatate come per eliminare qualche polvere cerebrale
e annusare più liberamente l'odore del suo pensiero nascente.
Poi, all'improvviso, uscendo dal torpore, si sporgeva in avanti,
acchiappava le parole con gli occhi e iniziava a parlarci
Le sue conferenze non erano mai circoscritte entro i limiti
di un enunciato teorico o di una dimostrazione didattica. Erano
ogni volta la testimonianza di un vissuto. Non c'era scissione
tra la concezione e la pratica. L'idea della sua arte, la costruiva
giorno per giorno, nel proprio corpo, attraverso lo sforzo del
movimento. La scuola non era altro che l'anticamera del suo
teatro a venire. Voleva costruire un nuovo attore per far sorgere
un nuovo teatro. Un attore corporeo per un teatro del corpo:
il Mimo Corporeo.
Il Mimo Corporeo e il teatro
Etienne Decroux viene a torto presentato come il padre del mimo
moderno. Non esiste alcuna filiazione diretta tra la sua ricerca
artistica e la stirpe dei Pierrot, da Gaspard Debureau ai mimi
Séverin e Georges Wague. Il Mimo Corporeo non è
assolutamente una 'modernizzazione' del mimo tradizionale. È
nato nell'ambito della scuola del Vieux-Colombier ed è
il risultato di una nuova pedagogia formativa dell'attore incentrata
sulla rivalutazione dell'espressione fisica.
Prima di consacrarsi all'arte del movimento, Etienne Decroux
è stato attore. Ha lavorato sotto la direzione di Jacques
Prévert, Jacques Copeau, Gaston Batty, Louis Jouvet,
Antonin Artaud e, soprattutto, nella compagnia di Charles Dullin.
La sua ricerca si è sviluppata sotto l'influsso di Edward
Gordon Craig e di Adolphe Appia, i cui scritti auspicano il
ritorno a una visualizzazione suggestiva della scena in totale
contrasto con il naturalismo di Antoine e il realismo psicologico
di Stanislavskij.
Fin dal 1931, nell'articolo Ma Définition du théâtre
[La mia definizione del teatro], Etienne Decroux si pronuncia
a favore della supremazia dell'arte dell'attore, dichiarando:
Il teatro è arte d'attore. Contro l'egemonia
dell'autore e del regista, Decroux pone l'attore al centro della
creazione teatrale. Ma, soprattutto, individua nel corpo l'elemento
fondante e regolatore del linguaggio scenico che testo e scenografia
vengono a completare in un rapporto di stretta necessità
e dipendenza. La presenza fisica dell'attore è dunque
il germe a partire dal quale tutta l'arborescenza teatrale prende
forma. Decroux chiamò la visione di questo teatro: Teatro
Completo, in opposizione al concetto di Teatro Totale che ambisce
a una sintesi tra le arti sotto la supervisione del regista,
grande officiante dell'opera.
L'Energia
Linfa o necessità interiore,
entrambe quelle formulazioni si aprivano sulla nebulosa psichica
sorgente di tutti i linguaggi e di tutti gli slanci espressivi.
Più la fissavo, meno ero in grado di nominarla. A seconda
dell'angolatura dell'osservazione interpretativa, assumeva forme
diverse. Poteva emergere dalla lucidità cristallina,
tralucere attraverso il velo del sogno, risalire lungo le pieghe
della memoria o filtrare all'estremità dei sensi. Ogni
volta, le sue apparizioni sembravano essere i riflessi di un'unica
e medesima realtà che mi sfuggiva.
Di fronte a quell'idra dalle mille teste, eternamente ipotetica
e fugace, tentavo di coglierne mentalmente la matrice originaria.
Progressivamente, le definizioni si scomponevano per dissolversi
in una sostanza più fondamentale che chiamavo Energia.
L'Energia contiene in potenza tutti gli stati di coscienza e
non-coscienza. In essa, le molteplici sfaccettature della nostra
interiorità non sono più formule statiche appuntate
con uno spillo alle pareti del ragionamento discorsivo. Diventano
raggi eccentrici di un unico nucleo di luce in rifrangenza.
Ma, soprattutto, la nozione di Energia, grazie alla sua assoluta
integrazione nella materia, permette di rompere il recinto introspettivo
della psiche, radicandola al cuore del nostro organismo biologico.
In virtù di quest'equazione fusionale, il pensiero non
è più unicamente il risultato di un processo neuronale
confinato nelle circonvoluzioni della corteccia cerebrale, come
tenta di dimostrare la neurologia, ma emana dalla nostra totalità
organica, poiché il flusso elettromagnetico che lo anima
sorge dalla nostra stessa struttura atomica e cellulare.
L'Energia è una e molteplice, etere e materia. È
la sorgente stessa del soffio vitale che attraversa al contempo
l'Essere e l'Esistente, la mente e il corpo. Questo concetto
diventerà il nucleo centrale a partire dal quale tutta
la mia tecnica del Corpo-Energia si svilupperà nel
corso degli anni a seguire.
Il Mimo Astratto
L'ascolto dell'interiorità nella pratica del Mimo Corporeo
era ancora più evidente quando Decroux ci proponeva di
improvvisare sul tema del pensiero. Insieme al duetto
amoroso, era uno dei suoi temi prediletti. Non si stancava
di tornarci con un'insistenza che talvolta rasentava l'ossessione.
Ne ero entusiasta perché, in tal modo, esplorava l'aspetto
del Mimo Corporeo per il quale nutrivo il maggiore interesse.
Quello che in un primo tempo aveva chiamato Mimo Soggettivo
e più tardi Mimo Astratto.
Il Mimo Astratto faceva eco nel campo teatrale alla sensibilità
che mi aveva spinto verso la musica e la pittura.
Sono sempre stato affascinato dalla trasparenza innata del linguaggio
musicale. Non racconta niente. La potenza del suo flusso sonoro
fa vibrare la nostra emozione senza passare per il filtro di
una forma tangibile. È magicamente interiorizzata dall'ascoltatore
nell'istante stesso del suo farsi.
Quanto alla pittura, mi aveva aperto le porte dell'astrazione.
Grazie a Kandinskij, non era più al servizio di un soggetto,
ma diventava soggetto. Punti, linee, superfici e colori erano
gli unici materiali palpabili tramite cui doveva transitare
la visione interiore. Il pretesto della raffigurazione era abolito.
Kandinskij esigeva la non-rappresentatività della forma.
Decroux pretendeva la non-rappresentatività dell'azione.
Eliminando il supporto narrativo del proprio atto, l'allievo
era costretto a canalizzare il suo sentito attraverso la sola
realtà muscolare del corpo, come il pittore astratto
la imprime nella sola realtà della materia pittorica.
Gli slanci, i trattenimenti, le tensioni, i rilassamenti, le
aperture e le chiusure dei movimenti dovevano riflettere quelli
del pensiero. Il corpo nello spazio rivelava lo spazio interiore
del corpo.
L'Esaltazione Corporea
Frequentavo ancora la scuola di Etienne Decroux, quando il centro
culturale della città di Bourget, alla periferia sud
di Parigi, mi propose di tenere un laboratorio di Mimo. Naturalmente,
insegnavo la tecnica della Statuaria Mobile, ma volevo anche
valermi di quell'opportunità pedagogica per portare avanti
delle ricerche personali.
Avevo potuto verificare che il comune denominatore di tutta
la tecnica decrousiana era la concentrazione mentale. Focalizzandosi
sull'evento corporeo, essa gettava un ponte tra attività
cerebrale e attività fisica. Ogni articolazione, ogni
muscolo, ogni nervo doveva essere controllato dalla nostra consapevolezza
di agire nello spazio e nel tempo. L'essere fisico si trovava
in tal modo dominato dall'essere mentale e la tecnica del Mimo
Corporeo mi sembrava più una disciplina dello spirito
che una disciplina del corpo.
Per controbilanciare l'ascendente del mentale, sentii il bisogno
di sperimentare un percorso inverso, che partisse dal corpo
per andare verso la mente, facendo appello non più al
controllo ma alla spontaneità.
In un angolo della sala erano accatastati alcuni tappeti da
judo. Dopo averli sistemati in modo che coprissero l'intero
pavimento, chiesi a ogni studente di lasciarsi andare a una
vera e propria esplosione fisica. Le regole dell'esercizio erano
semplici. Non appena l'allievo metteva piede sui tatami, doveva
scatenare tutte le risorse nervose del proprio corpo lanciandosi
in una dinamica ininterrotta di salti, cadute e rotolamenti.
La rapidità dell'esercizio era tale che la premeditazione
dei movimenti risultava impossibile. Ciascuno era costretto
ad affidarsi ai propri riflessi. Il corpo era in tal modo guidato
solo dall'intelligenza dell'istinto. Chiamai quello studio Esaltazione
Corporea.
Il risultato fu sorprendente.
Decroux mi aveva insegnato l'articolazione sintattica del corpo,
ora scoprivo il grido corporeo.
Immediatamente l'analogia con l'animalità si impose e
rammentai quell'assioma: L'uomo è un animale pensante.
Mi attraversò la mente con la folgorazione di un'evidenza.
L'istinto è primordiale! Garantisce la nostra sopravvivenza
biologica e la vivacità dei nostri sensi, senza i quali
nessun pensiero potrebbe nascere.
Il celebre cogito cartesiano - Penso dunque sono
- era reversibile: sono dunque penso.
La reciprocità di quell'assioma poteva essere sintetizzata
nei seguenti termini: sono dunque penso, dunque sono. L'essenza
genera il pensiero che crea la coscienza. La realtà sensoriale
e intuitiva della nostra animalità è la radice
del nostro Io pensante.
Lungi dall'opporsi alla tecnica di Etienne Decroux, l'Esaltazione
Corporea la completava. Anzi, la giustificava. Il controllo
è legittimo unicamente se interviene su uno stato che
sfugge ad ogni controllo. Suppone, a monte, l'incontrollabile.
Il risveglio dell'animale dormiente in ciascuno di noi si rivelava
condizione indispensabile alla sua doma.
Si addomestica solo ciò che è selvaggio e il selvaggio
è la bellezza del domare.
La conferenza di Jerzy Grotowski
Nel 1966, nella cornice del Festival del Théâtre
des Nations, il pubblico parigino fece la scoperta del Teatr
Laboratorium di Jerzy Grotowski. Lo spettacolo Il Principe
Costante venne unanimemente salutato dalla critica come
una vera e propria rivelazione. Non essendo riuscito a vederlo,
perché le repliche fecero il tutto esaurito, assistei
alla conferenza di Grotowski al Centro Nazionale per la Ricerca
Scientifica.
Il luogo non era stato evidentemente scelto a caso. Non si trattava
dell'ennesima conferenza stampa nel foyer di un teatro, ma di
un incontro all'interno di un tempio della ricerca. Grotowski
voleva sottolineare senza ambiguità il carattere scientifico
del Teatro Laboratorio.
C'era il fior fiore dell'intellighenzia parigina: critici, registi,
attori e docenti universitari
tra cui si aggirava qualche
smarrito spettatore.
Ho un ricordo visivo molto nitido dell'evento, tanto ne rimasi
impressionato.
Nella penombra, vidi arrivare un personaggio austero, vestito
con un completo nero. Era pingue, imberbe, con la carnagione
cerea, i capelli corti, grassi, incollati alle tempie, e gli
occhi nascosti dietro un paio di occhiali da sole dalla spessa
montatura nera. Circondato da alcuni dignitari del C.N.R.S.,
si sedette a un grande tavolo scuro, dove stavano ad attenderlo
una caraffa d'acqua, un bicchiere e un posacenere. Fumava una
sigaretta dopo l'altra e parlava nervosamente con voce nasale
venata di accento polacco, senza che l'ombra di un sorriso venisse
a illuminargli il volto. La sua esposizione era densa, precisa,
implacabile, in un silenzio di piombo. Ci parlò delle
sue ricerche al Teatr Laboratorium di Wroclaw, della sua concezione
del Teatro Povero, della catarsi, dell'attore
santo, della via negativa. Aveva la potenza
di un grande inquisitore e l'ascetismo di un San Francesco.
L'uditorio era sotto ipnosi.
Alla fine della conferenza, gli furono rivolte diverse domande,
in particolare a proposito di Antonin Artaud, dei cui scritti
dichiarava di essere venuto a conoscenza solo di recente.
È pur vero che una stessa pulsazione sanguigna sembrava
unire il suo pensiero al Teatro della Crudeltà
di Artaud.
Da parte mia, ero colpito soprattutto dal parallelismo tra la
sua ricerca e quella di Etienne Decroux.
Ravvisavo nell'articolo La mia definizione del teatro,
che Decroux aveva scritto nel 1931, una prefigurazione delle
tesi di Grotowski. Trent'anni prima, Decroux aveva identificato
nell'arte dell'attore l'essenza del teatro. Aveva letteralmente
anticipato il concetto di Teatro povero, subordinando
la ricchezza di un'arte alla povertà dei suoi mezzi espressivi:
Credo che un'arte sia tanto più ricca quanto più
è povera di mezzi.
Come Grotowski, aveva privilegiato la nozione di spettatore
su quella di pubblico, presentando il proprio lavoro a un uditorio
ancora più ristretto di quello del Teatr Laboratorium
di Wroclaw. Jean-Louis Barrault ne dà testimonianza in
questi termini: Egli [Decroux] ha finito per non volersi
più esibire se non davanti a due o tre persone. Oltre,
diceva, la gente perde il proprio libero arbitrio
Neppure la catarsi grotowskiana era estranea al pensiero di
Decroux: Se il teatro emoziona, è come emoziona
un crimine, quando lo vediamo dalla nostra finestra. Quest'immagine
ricorda la condizione voyeuristica che Grotowski cercava di
indurre negli spettatori, per renderli testimoni attivi dell'azione
e non consumatori passivi dello spettacolo.
Ma di tutti i valori comuni a Decroux e Grotowski, l'intransigenza
artistica mi sembrava essere ciò che li univa più
profondamente. Entrambi propugnavano un'etica di lavoro basata
sul dono di sé, sulla ricerca degli estremi e sul senso
dell'assoluto. Entrambi consideravano l'arte teatrale una scelta
di vita che coinvolgeva la totalità di chi la compiva.
Ricordo l'entusiasmo di Decroux alla lettura di un articolo
su Grotowski uscito sul Nouvel Observateur che aveva
per titolo Un regista che doma l'attore. Mentre
stavo per uscire dalla scuola, Decroux mi interpellò
brandendo il settimanale con aria trionfante: Avete letto?
Un regista che doma l'attore!
Nonostante ciò, Grotowski e Decroux sono fondamentalmente
diversi sul piano della personalità e del metodo. Il
razionalismo decrousiano, impregnato di chiarezza discorsiva,
è in totale contrasto coi chiaroscuri mistici di Grotowski.
Decroux esalta il dominio dell'istinto da parte della mente,
Grotowski cerca, sotto la maschera del quotidiano, il risveglio
della memoria del corpo nella sua relazione con
l'inconscio. L'articolazione geometrica del Mimo Corporeo si
oppone radicalmente al linguaggio impulsivo degli attori grotowskiani.
Serge Ouaknine e la pratica grotowskiana
Serge Ouaknine aveva appena terminato un corso di studi al Teatr
Laboratorium di Wroclaw. Di ritorno a Parigi, voleva creare
un gruppo teatrale per mettere in scena il Prometeo incatenato
di Eschilo. Dopo aver riunito attorno a quel progetto vari allievi
della scuola Jacques Lecoq, aveva sollecitato la partecipazione
anche di quelli della scuola di Etienne Decroux. Accettai di
unirmi al suo atelier di creazione con grande entusiasmo. Mi
si offriva finalmente l'opportunità di sperimentare l'allenamento
elaborato da Grotowski.
Il gruppo contava una quindicina di persone in tutto. Due o
tre volte alla settimana, ci ritrovavamo di sera in una palestra
alla periferia di Parigi. Serge ci introduceva alla pratica
degli esercizi fisici e plastici messi a punto da
Ryzsard Cieslak.
Il lavoro si suddivideva in tre fasi.
La prima era incentrata sull'apprendimento ginnico degli esercizi,
la seconda sulla loro concatenazione all'interno di una sequenza
che dovevamo liberamente definire e la terza sull'emersione
delle nostre motivazioni personali.
Quella sovrapposizione di vincoli ginnici e motivazioni personali
all'interno di una partitura gestuale prestabilita nel corso
della terza fase del lavoro provocava in me un conflitto.
Se l'obiettivo dello studio era far emergere una potenzialità
creativa nutrita da motivazioni personali, allora rivendicavo
il diritto di creare la partitura al di fuori della concatenazione
degli esercizi.
Se, al contrario, l'obiettivo era lo studio degli esercizi,
allora preferivo ignorare la ricerca delle motivazioni per concentrarmi
esclusivamente sull'apprendimento dei movimenti nella loro dimensione
ginnica.
La tecnica e la creazione rispondono a esigenze troppo diverse
per essere affrontate simultaneamente. La tecnica esige disciplina,
al fine di acquisire la maestria degli esercizi. La creazione,
al contrario, esige la libera esplorazione del proprio capitale
immaginativo. Non è sottoposta alle regole oggettive
della tecnica, ma alla sola interiorità soggettiva dell'attore
di cui occorre esaltare le risorse.
Quando l'artista crea, deve dimenticare la tecnica per entrare
completamente nel mondo del sentire che è la sorgente
della sua ispirazione. Non ci si dà se non dimenticando
se stessi.
Il talento, diceva Montesquieu, è un
dono che Dio ci ha fatto in segreto e che riveliamo senza saperlo.
La presa di coscienza dei mezzi tecnici può intervenire
a monte dell'atto creativo, o eventualmente a valle, mai durante
il suo esplicarsi.
L'apprendimento di una lingua è sempre anteriore alla
nostra capacità di esprimerci attraverso di essa. Non
appena un idioma ci diventa familiare, non cerchiamo più
le parole per comunicare il nostro pensiero, sono le parole
a venirci incontro per esprimerlo.
Ho sempre tracciato una frontiera netta e precisa tra l'oggettività
del lavoro tecnico e la soggettività del lavoro creativo.
Inoltre, ero disorientato dal fatto che l'insieme degli esercizi
proposti da Serge fosse in effetti preso a prestito da varie
discipline: acrobazia, Hatha-Yoga, Katakali, Ritmica
Jerzy
Grotowski non ne fa mistero e molti suoi scritti fanno riferimento
all'integrazione di tali pratiche nella sua sperimentazione
teatrale.
Niente a che vedere con Decroux che aveva fatto tabula rasa
di qualsiasi esperienza pregressa prima di costruire il proprio
metodo. Come hanno fatto Delsarte, Stanislavski, Dalcroze, Laban,
Graham e altri ancora nei campi di ricerca loro propri.
Anche se Grotowski adattava ai propri fini gli esercizi che
prendeva a prestito, quell'adattamento non poteva in nessun
caso essere considerato una tecnica originale. Era solo un innesto.
Gli esercizi che utilizzava erano stati concepiti per finalità
completamente diverse dalle sue. Se le tecniche dell'acrobazia,
del Katakali e della Ritmica appartengono ancora alla cerchia
delle arti dello spettacolo, lo Hatha-Yoga - finalizzato alla
ricerca di un'armonia interiore attraverso l'introspezione meditativa
- si colloca a mille miglia di distanza dal conflitto esistenziale
caratteristico dell'arte drammatica.
Contrariamente a quanto si può pensare, Grotowski non
ha elaborato un nuovo metodo formativo per l'attore, trasmissibile
di generazione in generazione. A meno che il suo metodo consista
nel non averne e che gli esercizi da lui proposti non siano
altro che pretesti privi di finalità propria.
Varie sue dichiarazioni lo fanno supporre: Senza dubbio
si può accrescere la quantità di dettagli plastici,
si può, passo dopo passo, trovarne altri [
] Si
possono iniziare gli esercizi su un'altra base. Si può
trovare tutt'altro programma di dettagli [
] Non è
il tipo di dettagli iniziali ad essere importante, ma lo spirito
della cosa.
Tutti gli elementi dei nostri esercizi sono sostituibili
possiamo senza dubbio ritrovare la base con altri pretesti.
In quest'ottica, gli esercizi fisici e plastici
non sono altro che sequenze di movimenti assemblati insieme
al solo scopo di costituire una base di lavoro per l'attore.
Possono essere sostituiti da altre sequenze-pretesto perché
l'importante non è il dettaglio fisico ma
la memoria del corpo che ciascuno deve saper risvegliare
attraverso il dialogo con se stesso.
L'essenziale è spingere l'attore ai suoi estremi affinché
la maschera delle sue difese si rompa, i suoi blocchi
brucino e l'attore si riveli attraverso
l'azione nella sua intimità più profonda.
Ciò non dipende dall'esercizio in sé ma da come
l'esercizio viene realizzato e guidato. Il come non si impara
e non è cirscoscritto in un metodo predeterminato e trasmissibile.
Nasce da un intimo ascolto tra colui che guida e colui che agisce,
dal semplice rapporto tra uomo e uomo che nessuna forma di trascrizione
è in grado di fissare.
In mancanza di un metodo, Grotowski propone un'etica del lavoro
che va ben al di là di un semplice processo tecnico.
Il Teatro Povero è frutto di un'esperienza umana, dell'incontro
miracoloso in un luogo e in un tempo dati tra una personalità
eccezionale e una costellazione di collaboratori altrettanto
eccezionali.
Il Teatro Povero è unico e inviolabile poiché
é Jerzy Grotowski, e lui soltanto, possiede la chiave
della sua risurrezione.
Grotowski ha scritto: La mia terminologia è sorta
dalla mia esperienza e ricerca personnale. Tutti dobbiamo trovare
un'espressione, una parola personale, un modo strettamente personale
d'influire sui nostri intimi sentimenti.
Parlava di terminologia, ma mi piace immaginare che in effetti
parlasse del proprio teatro
Perché allora ha pubblicato nel suo libro il descrittivo
degli esercizi come in un manuale?
Manuale che tutti gli apprendisti grotowskiani si sono affrettati
a seguire alla lettera come altrettante ricette che permettevano
di raggiungere lo stato estatico dell'attore santo.
Improvvisamente, ai quattro angoli del pianeta, sono nati gruppi
che si richiamavano al Teatro Povero senza aver mai avuto la
minima esperienza di lavoro diretta col Teatr Laboratorium di
Wroclaw. Erano grotowskiani perché applicavano i precetti
stilati dal Maestro.
Tale divulgazione ha provocato una serie di devianze dal pensiero
di Grotowski. Molto in fretta, i suoi principi si sono trasformati
in schemi e gli stereotipi del teatro convenzionale che Grotowski
voleva abbattere sono stati sostituiti dalle copie stereotipate
del suo teatro.
Su questo punto, Decroux ha avuto l'accortezza di non inserire
nel suo libro la descrizione della propria tecnica ad uso dei
praticanti. Ha preferito dichiarare: Chi vorrà
la luce non dovrà che studiare.
La tecnica di un'arte è naturalmente legata alla sua
pratica. Non può essere trascritta, letta e applicata.
Esige una trasmissione da Maestro a allievo al fine di preservarne
lo spirito, la sostanza che si dà e si accoglie nell'incontro
del vivente col vivente. La famosa tradizione segreta del teatro
Nô di Zeami non era tenuta segreta per il gusto del mistero,
ma per rispetto verso la tradizione orale dell'insegnamento
che garantiva la trasmissione del sapere attraverso il legame
esclusivo dell'esperienza umana. Persino in cucina, una ricetta
dettagliata non garantisce il migliore piatto.
Tra il sapere e il fare, c'è di mezzo la maniera, che
non si apprende ma si sperimenta soltanto.
E noi tutti sappiamo che l'arte sta nella maniera.
L'acrobazia con Romano Colombaioni
Prendevano parte al seminario anche altri pedagoghi invitati
da Eugenio Barba. In particolare il clown Romano Colombaioni,
venuto direttamente da Roma per dirigere un laboratorio di acrobazia.
Non mancai di seguire le sue lezioni.
Con piacere ritrovavo nella dinamica dei movimenti acrobatici
i principi dell'Esaltazione Corporea. Nessun salto senza choc.
Nessun lancio senza risonanza. Nessuna tensione
muscolare senza rilassamento.
Romano non spiegava niente. Il suo metodo pedagogico si riassumeva
nella formula magica: energia, energia, energia!.
La urlava con un riso feroce, sferzandoci come bestie. Pungolati
dai suoi richiami, ci lanciavamo alla cieca nelle capriole più
incredibili, affidando al nostro istinto il compito di salvarci
in extremis da quella follia suicida. La nostra noncuranza era
pari alla nostra temerarietà. Cercavamo disperatamente
di infrangere le leggi della gravità schizzando in aria
come petardi di luna park. Ma l'attrazione terrestre aveva sempre
l'ultima parola e precipitavamo a terra maledicendo Isaac Newton.
Quando finalmente, dopo lunga e tenace applicazione, riuscivamo
a volteggiare ricadendo in equilibrio sui piedi, ci rituffavamo
immediatamente nel movimento acrobatico per memorizzare fisicamente
la catena degli impulsi. Vittoria! Gioia! Piacere di volare!
L'acrobazia è una fantastica preparazione ludica per
l'arte dell'attore. Sviluppa la coordinazione del movimento
fondendo i tre aspetti fisiologici fondamentali del nostro corpo:
articolazione/flessibilità - muscolo/tonificazione -
nervo/stimolo.
Ma, soprattutto, permette di liberare la nostra spontaneità
mettendola a confronto con le basi elementari dell'azione: decisione,
proiezione, impegno, rischio e precisione.
Queste qualità, tipiche del movimento acrobatico, sono
altrettanto necessarie all'arte dell'attore.
Non c'è espressione viva senza la scintilla dell'impulso
decisionale, senza proiezione verso l'altro, senza impegno totale
della nostra identità, senza un'assunzione di rischio
che forzi i nostri limiti e senza precisione che assicuri l'efficacia
dei nostri atti.
Stimolando queste cinque qualità sul piano fisico, l'acrobazia
ne prepara il passaggio sul piano psicologico. Fortifica la
nostra volontà, rafforza la nostra apertura e rinsalda
la fiducia nel nostro istinto senza il quale l'incontro con
noi stessi e con gli altri sarebbe impossibile.
Il comico e il tragico
Lungi dall'opporsi, l'attore comico e quello tragico sono uniti
nella medesima etica. Entrambi sono utopisti, paria, marginali
in lotta contro il conformismo. Entrambi sono in rottura col
proprio ambiente. La loro condizione esistenziale è il
conflitto.
Ma mentre l'attore tragico si identifica al dramma e usa la
sua forza passionale per abbattere l'ostacolo, l'attore comico
si distanzia da quell'ostacolo, lo aggira e lo destabilizza
attraverso la corrosione del sarcasmo. Uno sublima la resistenza,
l'altro glorifica la derisione.
Le due maschere che ornano da secoli il frontone dei nostri
teatri appartengono a un unico volto enigmatico i cui occhi
sono le due finestre del nostro sguardo aperto sul mondo.
L'azione di strada
Un giorno, mentre uscivo dalla sala prove ancora intriso del
personaggio di Monsieur Ballon, mi sorpresi a guardare la hall
del teatro come uno spazio inesplorato. Bastava un piccolo scatto
mentale perché lo sguardo passasse dal riconoscere le
cose all'oblio della loro verosimiglianza. Appena la mia mente
scivolava nel vacuo, il luogo sfuggiva alla mia comprensione
e ogni particolare dell'arredo risvegliava la mia curiosità,
suscitava il mio stupore. Dentro e fuori dallo studio, il personaggio
continuava a esistere di per sé, e ogni incidente nel
suo percorso gli offriva nuove opportunità per trasfigurare
gli eventi e rafforzare la propria presenza.
Quel contatto diretto con la realtà bruta mi sembrava
un buon esercizio e l'idea di mettere Monsieur Ballon 'in mezzo
alla strada' ha germogliato. Fu così che un pomeriggio,
accompagnato dal mio ombrello, dalla valigia e dalla carrozzina,
mi sono ritrovato sotto un cielo plumbeo all'imboccatura della
strada pedonale di Holstebro. Nessun attore proveniente dall'austero
Teatro Laboratorio di Eugenio Barba si era mai avventurato per
le strade cittadine.
Immediatamente, i passanti mi identificarono come un'anomalia
nella quiete del paesaggio urbano. Alcuni fingevano di non vedermi,
altri mi guardavano interdetti, non sapendo se era il caso di
chiamare la polizia o l'ospedale psichiatrico. Dei bambini sorridendo
mi si avvicinarono divertiti. Solo un ubriacone mi venne incontro
credendo di vedere in Monsieur Ballon un fratello di sangue.
Tentò di dialogare con lui, ma i vapori della birra gli
avevano a tal punto alterato i sensi che ogni possibile relazione
era compromessa. Preferivo la mia solitudine alla sua compagnia,
dialogare coi manichini nelle vetrine, le strane strisce bianche
sull'asfalto e i lampioni spenti.
La diffidenza della gente non mi contrariava affatto. La loro
distanza si sommava alla mia e amplificava il mio stupore nei
loro confronti.
Malgrado i risultati poco gloriosi di quella prima incursione
in territorio urbano, ero convinto che in futuro le azioni di
strada avrebbero dovuto accompagnare le rappresentazioni in
sala. Non bastava accogliere il pubblico in teatro, bisognava
anche sollecitarlo nel suo habitat naturale. Non spostando lo
spettacolo dal palcoscenico alla strada, né tracciando
sull'asfalto il cerchio magico di uno spazio teatrale, ma facendo
della strada stessa il vero spettacolo. In questo contesto,
l'attore lavora senza rete. È un pescatore di correnti
d'aria e deve saper cogliere al volo il fortuito laddove si
presenta, trarre profitto da qualsiasi pretesto affinché
una poetica scaturisca dal quotidiano. Non c'è miglior
scuola dell'imprevedibile.
Scendendo dal palco per mescolarsi alla folla, l'attore comico
si ricollega alla tradizione ancestrale della sua arte, popolata
di giocolieri e saltimbanchi. Da sempre e in ogni civiltà,
il comico è figlio del popolo. È cresciuto nelle
piazze e non nei salotti. Ha sempre rappresentato la rivincita
dei diseredati sui benestanti. Fare della strada il proprio
teatro significava ritrovare le radici viventi dell'agitatore
da cui l'attore proviene.
Il piacere, il riso, la gioia e il teatro popolare.
Avevo sempre affrontato le rappresentazioni di Mimo Astratto
col peso del mondo sulle spalle, nella sofferenza e nella lacerazione.
Ora mi sorprendevo a non stare nella pelle dietro il sipario
come un bambino eccitato alla vista di un nuovo giocattolo.
Per la prima volta, il famoso jeu dell'attore (In
francese la parola jeu, gioco, significa
anche recitazione) diventava realtà. La rappresentazione
non era più un rito sacrificale, ma une partie
de plaisir [una partita di piacere]. Mi divertivo come
un matto trascinando il pubblico nel mio delirio. Fioriva una
nuova estasi, anch'essa impastata di sudore e di sforzi, di
rigore e integrità, ma attraversata dalla cometa del
riso che, di rimbalzo in rimbalzo, sprizzava da uno spettatore
all'altro come un'onda travolgente.
L'ebbrezza della risata che unisce le disparità degli
uomini in un unico slancio di libertà ritrovata. Il miracolo
della risata che placa le nostre angosce, le nostre lamentele
e i nostri rancori. Il furore della risata che smaschera i nostri
tabù e la nostra alienazione. La bellezza della risata
dai denti scintillanti come stelle di un cielo sognato.
Quel riso, non lo potevo ripudiare.
Portava e mi portava gioia. Penetrava nei cuori, abbatteva le
barriere tra le generazioni, le classi sociali e le razze, restituendo
al teatro la sua vocazione popolare.
Quel teatro, non lo potevo abbandonare.
La ricerca fondamentale
Tale cambiamento di rotta non modificava in nulla la mia ricerca
fondamentale sull'arte dell'attore. Indipendentemente dal linguaggio
adottato, la conoscenza dello strumento fisico-vocale restava
una priorità assoluta.
Che l'attore opti per la tragedia o per la commedia, le basi
sono sempre le stesse: un'energia, un corpo, una voce. La fusione
di queste tre componenti é il fondamento comune a tutti
gli orientamenti artistici. L'attore deve appartenersi prima
di potersi dare.
Lo stesso vale per il musicista. Durante la sua formazione,
non impara un genere musicale ma la padronanza del suo strumento
che gli consentirà di suonare ogni tipo di musica a piacimento.
Malgrado l'irruzione del comico, restavo fedele al mio campo
d'indagine sul Corpo-Energia e il Corpo-Vocale.
La vera creazione non risiedeva nella finzione momentanea degli
spettacoli che potevo elaborare, ma nella scoperta dell'arte
dell'attore e più profondamente dei principi immanenti
al dialogo dell'uomo con se stesso.
Questa ricerca fondamentale è tuttora il filo di Arianna
del mio percorso artistico. Ignorata dal pubblico, è
la costante che ha attraversato in segreto la varietà
dei miei spettacoli destinati a consumarsi con l'aria del tempo.
Il Teatro Corporeo
Di fronte all'apparizione inopinata di Monsieur Ballon, il termine
'Mimo Astratto', che avevo utilizzato fino a quel momento per
presentare il mio lavoro, non era più adeguato.
Peraltro, questo termine non mi aveva mai veramente convinto.
La nozione di 'astratto' non poteva incidere più di tanto
su quella di mimo, inevitabilmente legata all'imitazione e all'illusionismo
gestuale. Avendo studiato con Etienne Decroux, maestro del più
grande mimo planetario - Marcel Marceau - dovevo essere un mimo.
Ero dunque costretto a trovare una nuova terminologia in grado
di delimitare meglio la specificità della mia ricerca.
Al fine di evitare qualsiasi malinteso, doveva tassativamente
escludere la parola mimo e integrare la parola teatro.
I termini di Teatro gestuale e Teatro non
verbale che circolavano all'epoca non mi soddisfacevano
perché il personaggio di Monsieur Ballon faceva uso della
parola e, se i miei spettacoli di Mimo Astratto rimanevano silenziosi,
il progetto del Teatro Astratto che avevo in mente doveva includere
la voce.
L'unico concetto a cui aderivo pienamente era quello di Teatro
Completo di Etienne Decroux. Quando affiancai mentalmente le
espressioni Teatro Completo e Mimo Corporeo,
mi parve possibile un connubio tra le due. Il Teatro Completo
diventava il Teatro Corporeo. L'aggettivo corporeo
giustificava l'assenza di riferimenti all'espressione vocale
che il sostantivo teatro conteneva virtualmente.
Inoltre, quella nuova denominazione non escludeva nessuna alternativa.
Poteva comprendere sia il teatro tragico che quello comico,
sia quello astratto che quello narrativo. Non si riferiva a
uno stile ma alla necessità di strutturare la totalità
del linguaggio teatrale a partire dalla realtà corporea
dell'attore.
Nel 1973, il termine Teatro Corporeo era totalmente
inusitato. Da quel momento, tutte le mie creazioni sarebbero
state presentate all'interno di questa cornice. I riferimenti
al mimo furono sistematicamente soppressi dai miei comunicati
stampa e programmi di sala. Arrivai persino a stipulare una
clausola contrattuale che costringeva gli organizzatori a promuovere
i miei spettacoli con l'esclusiva dicitura di Teatro Corporeo.
Potevo sperare così di imporre un nuovo concetto teatrale
in armonia con le mie aspirazioni artistiche.
Non servì a nulla.
La critica continuava a parlare del mimo Lebreton. La mia impotenza
era totale ed è rimasta tale fino ad oggi malgrado le
mie dichiarazioni contro quest'arte mimica che mi si incolla
alla pelle come la scabbia.
Col tempo mi sono rassegnato.
Avrei forse dovuto nascondere i miei anni di formazione con
Etienne Decroux?
Per onestà morale e professionale, mi sono sempre rifiutato
di farlo, esponendo senza ambiguità la mia filiazione
al suo insegnamento.
Personalmente, non ho mai smesso di rivendicare la mia appartenenza
all'arte dell'attore. Troppo spesso si dimentica che l'attore
è colui che agisce, non colui che parla;
che l'onnipotente Verbo della Bibbia a cui fanno riferimento
i drammaturghi per imporre l'egemonia del parlato indica, sul
piano grammaticale, il fatto e non l'idea del fatto, il fulcro
dinamico del pensiero che solo l'azione fisica può tradurre.
La stessa parola teatro, che noi assimiliamo alla
declamazione di un testo d'autore, etimologicamente significa
luogo dove si contempla.
Non abbiamo forse l'abitudine di dire che andiamo a sentire
un concerto e a vedere uno spettacolo?
Se di fronte a una rappresentazione teatrale, dovessimo esigere
dallo spettatore di scegliere tra ascolto e sguardo, senza dubbio
privilegerebbe la vista rispetto all'udito.
La natura profonda del teatro risiede nell'azione che si offre
alla vista degli spettatori. Rinunciare al linguaggio verbale
non significa obbligatoriamente rivestire i panni stilistici
del mimo. Al contrario, significa denudarsi di tutti gli apparati
del teatro per tornare alla sua origine prima: l'atto. L'atto
radicato nel corpo, proiettato nel movimento, stimolato dal
pensiero, assertore di una presenza. L'atto come luogo di passaggio
tra donare e ricevere. L'atto come unica possibile via d'uscita
di fronte all'imperiosa necessità di esistere. L'essenziale
è lì: che l'atto sia vivo e integri nell'istante
della propria realizzazione la totalità di colui che
agisce. Il resto è superfluo, analisi teoriche e valutazioni
tecniche che non saranno mai in grado di rivelare l'inafferrabile:
il vissuto nell'immaginario.
|
Rivista
Hystrio n. 2. 1998, Milano
Intervista a curaa di Renzia D'Incà..
Quale é il programma e quali obiettivi si é
prefisso quando ha fondato la scuola di mimo l'Albero ?
"Da venticinque anni non mi fermo di dichiarare che non
sono un mimo e da venticinque anni voi giornalisti continuate
con ostinazione ad incollarmi questa etichetta sulla schiena.
Odio il mimo, la pantomima illusionista basata sulla narrazione
descrittiva e l'espressione dimostrativa: la falsità
come stile teatrale. É vero che ho studiato alla scuola
di Etienne Decroux che é considerato, in maniera impropria,
il padre del mimo moderno. Decroux non ha nessuna filiazione
diretta con la pantomima dello XIXème secolo anche se
il più popolare dei suoi allievi, Marcel Marceau, ha
fatto un ritorno nostalgico verso questa tradizione. É
noto che Etienne Decroux non aveva alcun rispetto ne stima per
la scelta artistica di Marcel Marceau.
L'arte di un Maestro non può essere valutata alla luce
dei suoi allievi. Unicamente gli allievi possono essere valutati
alla luce dell'arte del Maestro. Il Maestro va guardato in se
e per se. Il lavoro di Etienne Decroux emerge dalla ricerca
teatrale degli anni 30/40 intrapresa da Jacques Copeau e Charles
Dullin per i quali ha collaborato come attore nel quadro delle
loro rispettive compagnie. Decroux é un uomo di teatro.
Un uomo di teatro che ha portato la sua convinzione artistica
fino alla radicale cancellazione dell'espressione verbale dell'attore
a beneficio della sua espressione corporea. Questo ritorno alla
supremazia del corpo era un ritorno all'essenza del teatro.
Senza la co-presenza fisica dell'attore e dello spettatore,
nessun evento teatrale può avere luogo. Il corpo é,
senza dubbio, la radice dell'albero teatrale. Dimentichiamo
troppo spesso che la parola "attore" fa riferimento
all'azione e non alla declamazione; che "l'espressione
verbale" stessa s'identifica con il verbo, alla qualificazione
dell'azione in una frase; e che in fine, la parola "teatro"
significa "quello che é visto" e non sentito.
La storia etimologica dell'arte teatrale pone l'azione e dunque
il corpo che la esegue, al centro del suo linguaggio.
Seguendo l'insegnamento del mio Maestro, ritorno alla fonte
organica del teatro: il corpo. Il mio scopo non é di
limitare il teatro all'unico linguaggio fisico dell'attore ma
a partire da esso, di riconsiderare il teatro come una totalità
genetica dove il corpo é, nello stesso tempo, origine
e regolatore della sua arte.
Il Centro Internazionale di Formazione, Ricerca e Creazione
Teatrale - l'Albero non ha altro obbiettivo. A partire dalla
centralità del corpo tende a riscoprire il legame che
unisce questa ultima ai diversi componenti del linguaggio teatrale
e principalmente alla voce. Oltre agli stage di base sul "corpo
energetico" e sul "corpo mentale", l'Albero propone
degli stage sul "corpo vocale", sul "corpo verbale",
sul "corpo musicale" e sul "corpo comico".
Ci può fare un bilancio sull'attività del Centro
?
Tengo a precisare che il Centro é purtroppo un'iniziativa
strettamente privata. Non ho avuto sostegni di nessun tipo;
né dalle amministrazioni locali, né dallo Stato
italiano, né dalla Comunità europea. Il Centro
si é creato a partire dalle mie proprie risorse economiche
conseguenti dalla vendita dei miei spettacoli. La mancanza di
tale sostegno frena indubbiamente lo sviluppo e la crescita
delle sue attività. Per fortuna gli studenti hanno risposto
numerosi ai corsi che ho organizzato in questi 5 anni. Oltre
dall'Italia, vengono da tutti i paesi europei (Germania, Francia,
Austria, Svizzera, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia, Norvegia,
Finlandia, Polonia) ma anche dagli Stati Uniti e dall'America
Latina (Brasile, Argentina e Colombia). Sono principalmente,
attori, cantanti o danzatori, in formazione o professionisti,
ma anche studiosi, insegnanti, educatori, psicologi, architetti
e persone provenienti da formazione diverse. La motivazione
con cui gli studenti affrontano i corsi é grande. Lavorano
per 6 - 7 ore al giorno con un impegno fisico diretto e faticoso.
A questo livello il Centro funziona benissimo. Mi dà
delle grandi soddisfazioni e la gente riparte ripagata non unicamente
per il lavoro svolto, ma grazie anche alla qualità di
vita che il Centro si fa un dovere di soddisfare in un luogo
cosi privilegiato, immerso nella bellezza antica delle colline
toscane. Nel corso di questo anno incrementeremo il numero degli
stage. Il progetto a lungo termine prevede di allargare l'attività
dei seminari a dei laboratori di formazione o di ricerca per
dei periodi più lunghi e con la partecipazione di docenti
provenienti da orizzonti diversi. Purtroppo senza contributi
per il Centro e borse di studi per gli studenti, tale progetto
rimane ancora un'utopia. Sarà sempre l'utopia ad ampliare
il campo del possibile ?
Il teatro italiano é in grado di capire l'importanza
del corpo per la sua mutazione ?
Il discorso é più ampio e complesso. É
necessario chiedersi prima se l'Italia é in grado di
capire l'importanza del teatro e più profondamente, l'importanza
dell'arte e della cultura nella mutazione della sua società.
Non é unicamente il teatro ad essere in crisi in Italia,
ma la sua cultura e tragicamente la sua creatività artistica.
Vedere la patria di Dante, di Michelangelo, di Leonardo da Vinci,
di Vivaldi, di Goldoni e di tanti altri artisti italiani protagonisti
della cultura mondiale, senza un Ministero della Cultura é
una vergogna. Vedere la burocrazia italiana asfissiare con le
loro leggi, decreti e circolari, il giovane teatro, il teatro
indipendente, il cosi detto teatro "alternativo",
é rivoltante. La storia c'insegna che gli artisti innovatori
sono sempre i meno conformisti e i più allergici ai corridori
delle amministrazioni e agli intrighi di salone. Vedere l'impotenza
o l'incompetenza dei potere politici per rilanciare la cultura
quando non si ferma di dilagare la cretinizzazione di massa
tramite lo schermo televisivo, é desolante e indegno.
Non saranno mai i vecchi marinai del teatro di prosa, i gestori
dell'attività teatrale su fondo d'aggancio politici a
rinnovare la cultura teatrale, ma i nuovi creatori. Quelli precisamente
che lo stato mette allo sbando con le sue normative obsolete.
Il teatro in abbonamento, il teatro di giro, il teatro "ufficiale"
con il suo ronzio di routine soporifero, non fa altro che allontanare
le nuove generazioni dalla realtà teatrale.
Sembra un paradosso ma é proprio la massima scritta sul
frontone di uno dei più bei tempi della tradizione teatrale
italiana, il Teatro Massima di Palermo, ha invocare una condotta
sulla quale le responsabili delle istituzioni culturale dovrebbe
meditare: "L'arte rinnova i popoli e ne rivela la vita.
Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l'avvenire."
È poco gratificante vedere che alla soglia del duemila
é proprio la coscienza culturale dell'ottocento a darci
delle lezioni di contemporaneità.
Di fronte ad una "decadenza annunciata", gli artisti
e solo gli artisti, dovrebbero reagire con forza e determinazione
per costringere i politici ad assumere le loro responsabilità,
per rendere l'Italia degna della sua straordinaria eredità
artistica in seno alla comunità internazionale. Non i
soliti Presidenti d'enti o di commissione, Direttori o Amministratori,
che hanno la pretesa di valutare, orientare e organizzare l'attività
teatrale senza spostarsi sul campo della produzione per incontrare
gli artisti e dialogare con i creatori del teatro d'oggi e di
domani. Da colloquio a colloquio si consultano e consultano
bilanci su bilanci, rapporti e dossier ignorando l'essenziale:
la pratica artistica e la realtà dei creatori. Perché
si tratta della pratica, della pratica del teatro, della pratica
di un'arte. L'arte e gli artisti sono drammaticamente assente
nel dibattito sul teatro.
L'arte costruisce la cultura e la cultura é il vero garante
dell'evoluzione strutturale ed etica di una società.
Senza cultura, la ricchezza di un paese si chiude sulla sua
autodistruzione consummista..
Certo, non é guardando i valori della borsa che i politici
possono apprezzarne l'esigenza e la necessità.
Le scuole di teatro in Italia e all'estero dedicano abbastanza
spazio alla studio del corpo ?
Assolutamente, no ! La storia dello XX secolo non si é
fermata ad evidenziare l'importanza del corpo nel linguaggio
teatrale. Dalle teorie d'E. G. Craig e d'A. Appia alle visioni
d'A. Artaud; dalla pratica di V. Mejerhold a quella d'E. Piscator,
E. Decroux, J. Beck, J. Grotowski, T. Kantor o B. Wilson, la
volontà di prendere in considerazione il movimento scenico
e più particolarmente il movimento dell'attore non si
é fermata di affermarsi.
Se alcuni di questi grandi Maestri hanno lavorato su una metodologia
trasmissibile come Appia grazie alla sua collaborazione con
J. Dalcroze sulla "ritmica", come Meyerhold con la
sua "biomeccanica", come Decroux con il suo "mimo
corporeo", come Grotowski con il suo "physical and
vocal training", le loro ricerche sono rimaste ciascuna
richiusa nella sfera della propria esperienza teatrale. Malgrado
i loro contributi preziosi e storicamente riconosciuti, la pedagogia
teatrale sembra impermeabile alle loro rivoluzioni. NelIa maggiore
parte delle scuole teatrali predomina sempre l'interpretazione
verbale, la recitazione parlata infeudata ad un testo d'autore;
il concetto di un attore interprete e non creatore. Le capacità
espressive del corpo rimangono un annesso, un ingrediente, invece
di essere considerato come la priorità delle priorità.
È senz'altro un'assurdità perché anche
l'esigenza della funzione interpretativa nella sua più
pura tradizione implica necessariamente un ritorno al corpo.
La funzione verbale stessa, nel suo aspetto fisiologico, riporta
l'attore al suo corpo. Non c'é voce senza respiro e non
c'é respiro al di fuori del corpo. La voce e la parola
sonno l'estensione della corporalità dell'attore. Anche
la sacro-santa "interpretazione" riporta l'attore
al suo corpo. Un testo da interpretare trova la sua potenza
espressiva solo quando é vissuto da parte dell'attore.
Questo vissuto, caricato di sensazioni, emozioni e pensieri,
attraversa per forza il corpo. Il corpo é il ricettacolo
per eccellenza del suo pensiero. Annullare la fisicità
del corpo é distruggere di conseguenza ogni materializzazione
possibile del pensiero. Il Maestro in assoluto del teatro di
prosa stesso, la divinità di ogni scuola di teatro: C.
Stanislavski non ha cessato di costruire una metodologia capace
di reintegrare il testo al vissuto affettivo e mentale dell'attore
affinché la presenza fisica di quest'ultimo potesse incarnare
le parole dell'autore. Solamente a questa condizione, la recitazione
parlata di un testo d'autore trova la sua autenticità
e contemporaneamente il suo impatto nel pubblico.
Purtroppo le Accademie d'Arte Drammatica rimangono sorde a tali
riflessioni. Come durante lo XIX secolo, l'autore é il
re e l'attore, il suo servo.
La frattura tra le istituzioni responsabili della formazione
teatrale e la ricerca artistica contemporanea é tragica.
La crisi d'identità che agita il teatro di questo secolo
con l'avvenimento del cinema e della televisione, va affrontata
senz'altro nella ricerca di una risposta a questa spaccatura.
L'osservazione di V. Meyerhold sulla necessità di creare
prima un nuovo attore per creare dopo un nuovo teatro é
sempre d'attualità.
Revista "Rampelyset", n° 125, April/Maaggio 1977,
Thisted, Danimarca.
Intervista a cura di H.O. Jørgensen (traduzione italiana
in corso)
Un certain désaccord souvent apparaît entre
Danse, Mime et Pantomime. Comment voyez-vous ces trois éléments
et leur relation?
Il est toujours dangereux d'effectuer des classifications entre
les arts et de placer ces derniers dans des tiroirs portant
étiquettes. Cela entraîne immanquablement une vision
systématique et doctrinaire stérile. La pratique
des arts possède une vitalité qui ne saurait se
mettre en boîte aussi aisément que la pensée
analytique et théorique voudrait bien nous le faire croire.
Parler des différences entre la danse, le mime et la
pantomime est donc une tâche périlleuse et délicate.
Encore faudrait-il savoir ce que sont la danse, le mime et la
pantomime? Les danseurs, mimes et pantomimes seraient bien incapables
de donner eux-mêmes une définition stable et générale
de leur art. Ils ne peuvent parler que de leur choix artistique.
Entre la danse classique, la danse moderne, folklorique, primitive
ou de salon, se situent des écarts d'orientations dont
l'importance permet des définitions aussi diverses et
contradictoires les unes que les autres.
À l'inverse, le mime et la pantomime recouvrent bien
souvent, la même pratique. Je ne constate guère
de différence majeure entre ces deux genres. Certains
voudraient voir dans le premier un langage plus intérieur
et symbolique, tandis que le second serait plus descriptif et
narratif. Mime et pantomime m'apparaissent intimement mêlés
et confondus. Ils peuvent être considérés,
tout au plus, comme deux manières différentes
d'un même langage et non comme deux formes d'expression
clairement distinctes. Si vous ne départagez pas dans
votre question les diverses tendances de la danse, il n'y a
pas lieu de départager le mime de la pantomime. Dans
ces conditions, je me permets de ramener le propos de votre
demande à comparer la danse et le mime en incluant dans
cette dernière appellation la notion de pantomime.
Historiquement, la danse et le mime semblent avoir en occident
une origine commune : "la saltation" de la Grèce
antique. Si nous nous référons à certains
témoignages d'époque, nous pouvons constater que
la gestuelle du saltateur était structurée d'une
part, par la cadence rythmique et mélodique de la musique,
et d'autre part, par l'agencement d'un ensemble de signes capables
de raconter une histoire. Cette union de l'élément
rythmique et narratif se trouve présente dans la plupart
des formes d'expressions corporelles primitives.
De ce noyau originel, la gestuelle rythmique semble s'être
progressivement détachée pour donner naissance
à la danse sous l'influence permanente de l'élément
musicale, tandis que la gestuelle narrative trouvait peu à
peu son autonomie pour donner naissance au mime. Ces deux tendances
semblent correspondre en fait, aux deux grands états:
lyrique et épique, inhérent à toute forme
de représentation et dont on peut saisir le parallèle
entre le chanter et le parler. Face à la même réalité
d'un fait, l'état lyrique l'absorbe dans une vision universelle
par l'allégorie, l'état épique l'insère
dans une vision particulière où il sera représenté.
La danse semble correspondre à un moment d'extase s'échappant
du réel et le mime à un moment de confrontation
s'enracinant dans le réel.
La danse chante, le mime parle.
Quels sont d'après vous les éléments
de base propre au mime?
En essayant de définir les caractères respectifs
du mime et de la danse, j'ai déjà implicitement
répondu à cette question. Je ne ferai donc que
développer ce que j'ai déjà formulé
précédemment, à savoir que le propre du
mime est de raconter le déroulement d'une histoire par
le seul moyen du mouvement corporel dans le silence.
Pour représenter cette histoire, le mime doit tout d'abord
incarner les différents personnages qui en sont les protagonistes,
décrire les actions que ces derniers entreprennent et
exprimer à la fois les sentiments qui les animent.
En personnifiant le personnage, il va imiter le comportement
de ce dernier. Dans sa pantomime "David et Goliath"
par exemple, Marcel Marceau semble dilater ou réduire
son corps pour personnifier tour à tour Goliath et David.
Dans sa fonction descriptive, le mime va créer l'illusion
d'exécuter une action sans le recours des objets ou des
formes vivantes circonscrivant ladite action, comme le fait
Marcel Marceau dans sa pièce "Bip chasseur de papillon".
Dans sa fonction expressive, le mime va utiliser l'ensemble
de son corps et principalement sa mimique faciale pour exprimer
la croissance, l'épanouissement et la perte de la vitalité
à l'intérieur des différentes étapes
successives de la vie d'un homme dans sa pièce "Naissance,
maturité et mort". Il est important de noter toutefois
que l'expressivité du corps n'est pas un attribut propre
au mime. C'est un impératif commun à tous les
arts vivants, inhérent à la fois à l'acteur
parlant et au danseur. Ce qui lui est spécifique est
donc son caractère imitatif et illusionniste. Ceci peut
constituer la base d'une définition: le mime est une
expression corporelle imitative utilisant une gestuelle illusionniste.
Mais je ne peux réduire mon opinion sur le mime à
une simple définition de style. Le processus d'un langage
dans son mécanisme expressif et communicatif est une
chose, la charge que celui-ci véhicule par son expression
en est une autre. Il convient donc de réajuster cette
définition du mime en fonction de sa pratique.
Si au cours des siècles de l'Antiquité à
nos jours, le mime est resté fidèle dans ses procédés
à sa vocation imitative et illusionniste, sa pratique
a subi des orientations différentes.
Face à son origine et à sa tradition populaire
qui n'a cessé de le guider jusqu'à XIXéme
siècle, le mime d'aujourd'hui me semble être devenu
un art purement stylistique et porteur d'aucune force réellement
novatrice. C'est un rebus de petites histoires, tantôt
ironiques tantôt dramatiques sur fond de poésie
mais dont l'unique propos, bien souvent, est de divertir. C'est
un art qui se confine dans un vocabulaire de clichés,
selon une panoplie d'effets inlassablement répétés,
copié, réédités et sans cesse aimanté
par l'imagerie jaunie du Pierrot.
Le mime nostalgique auréolé d'innocence et drapé
dans son nuage de farine ne m'a jamais intéressé.
Sa pratique soit me laisse indifférent soit m'irrite,
car elle a perdu sa force de protestation.
Si pour l'artiste les routes sont multiples et diverses, les
orientations ne le sont pas. Un seul choix s'impose: soit notre
action s'engage comme une volonté transformatrice, protestant
contre une situation sclérosante, stimulant des forces
nouvelles, soit elle participe à la routine de l'ordre
établi, en entretenant le ronronnement sécurisant
du conformisme. Dans un cas, elle agit comme une force régénératrice,
dans l'autre elle maintient un état conservateur entraînant
immanquablement décadence et dégénérescence.
Ce choix d'orientation préexiste à toute initiative
de travail et dépasse de beaucoup la fonction du mime,
du théâtre et des arts en général
pour concerner finalement tous les niveaux de notre structure
sociale.
Si le mime fidèle à son origine imitative et illusionniste
veut survivre et se développer, il me semble qu'il doit
retourner à ses racines populaires, puiser sa force où
il s'est formé sur les tréteaux des théâtres
ambulants du moyen âge, dans les baraques foraines. Le
mime est né sur les places publiques et sa vigueur fut
toujours dans l'histoire une force subversive et contestataire.
Perdre cette vigueur, c'est faire du mime un art de salon voué
à la décadence.
Comment définissez-vous le Mime abstrait et en quoi
diffère-t-il du Mime pure?
Je ne peux répondre à votre question telle qu'elle
est formulée car pour ma part, le Mime Abstrait est le
mime pur. Il me faut donc modifier votre demande afin de placer
sa comparaison entre le mime abstrait et le mime traditionnel
tel que je l'ai défini précédemment.
La notion de mime abstrait me fut enseignée par Etienne
Decroux. Lui-même dans une première période
nommait ce mode d'expression "mime subjectif".
Mime abstrait ou mime subjectif son appellation est de toute
façon une antinomie imposée par le langage verbal
dans son incapacité à rendre compte unitairement
de la dualité toujours présente en chaque forme
de vie: l'esprit et la matière, la pensée et le
corps.
Le mime abstrait serait le point de fusion entre la vie subjective
propre à l'univers psychique de l'acteur et celle objective
propre à la physiologie de son propre corps. Il serait
le développement extrême du Mime Corporel vers
ce que je nommais précisément "le mime inversé"
dont la poétique ne s'appui plus sur les références
du monde extérieur mais sur celles du monde intérieur.
La figuration représentative d'une action scénique
n'est finalement qu'un prétexte pour communiquer au-delà
de sa description formelle, une énergie, une réflexion,
un message plus essentiel. Le mime abstrait annule le prétexte
descriptif de la figuration afin de communiquer le message directement
par la matière organique du corps. L'acteur n'est plus
alors un personnage inscrit dans un déroulement anecdotique,
mais un organisme physique dont les mouvements, les contractions,
les détentes et les pulsions révèlent le
déroulement de son énergie psychique.
Il ne représente plus sa pensée, il pense par
son corps. Les signes de son langage ne sont plus les gestes
conventionnels et reconnaissables par le public, mais les mouvements
biologiques à redécouvrir dans son corps. Exprimer
une lassitude en passant le dos de sa main sur son front, c'est
utiliser un signe conventionnel reconnaissable. Exprimer cette
lassitude par un affaissement de la poitrine et du corps, c'est
la révéler par un signe biologique non codifié,
non reconnaissable, mais dont le sens peut-être redécouvert
intuitivement par le public dans l'instant de sa réalisation.
Ainsi en effaçant la narration anecdotique des signes
conventionnels, le mime abstrait retourne à la matière
fondamentale du corps. En ce sens son appellation pourrait-
être tout aussi bien celle de mime concret, celui qui
retourne à la vie organique comprise comme l'architecture
essentielle des énergies animant toute forme vivante.
Mime abstrait, mime subjectif ou mime concret, toutes ces appellations
seront toujours équivoques et sujettes à malentendus,
car entachées par la fonction imitative inhérente
au terme mime.
Etienne Decroux argumentait son choix terminologique de mime
abstrait en déclarant qu'il s'agissait de "l'imitation
des mouvements de la pensée". Il aurait été
préférable de prendre tout de suite ses distances
vis-à-vis d'une appellation si compromise. Le mime ne
peut échapper à sa signification étymologique
et à sa tradition historique: l'imitation illusionniste.
Ceci est sa racine et sa source desquelles il doit puiser sa
force de renouvellement. Si nous envisageons une autre forme
d'expression, liée peut-être indirectement ou directement
à la tradition du mime mais ne possédant plus
le caractère imitatif et illusionniste, il serait préférable
de choisir un autre terme, vierge et dont la signification sera
la résultante de la pratique qu'il recouvre.
C'est ainsi que depuis plusieurs années je refuse de
présenter mon travail sous l'appellation de mime ou mime
abstrait pour revendiquer celle de Théâtre corporel
dans le domaine de la création et de Langage du corps
dans celui de la pédagogie.
Combien de temps avez-vous travaillé sur le personnage
de votre spectacle "Hein?
"? Ce travail est-il
en relation avec celui de J.L. Barrault et comment pouvez-vous
le situer par rapport à la théorie d'E.Decroux
concernant "poussée / contre-poussée, - tirée
/ contre-tirée"?
J'ai travaillé sur la préparation du spectacle
durant deux années consécutives, mais suivant
un rythme de travail tout différent de ceux qui ont présidé
à l'élaboration des spectacles précédents
orientés vers le théâtre abstrait. Les cinq
créations qui précédent "Hein?
"
ont toutes été réalisées durant
une période intensive de trois à quatre mois où
le travail d'entraînement, d'improvisation et de répétition
s'enchaînait à une cadence d'environ 8 à
9 heures de travail journalier. Il s'agissait chaque fois d'une
épreuve de force, d'une concentration extrême sur
l'objectif du travail sans compter les 3 ou 4 heures de travail
quotidien consacrées aux tâches administratives.
"Hein?
" fut créé à l'inverse.
J'y travaillais entre les tournées, de temps à
autre, selon des périodes de travail allant d'une à
quatre semaines espacées parfois par des intervalles
de deux à trois mois. Ce rythme de travail m'a semblé
assez juste car il permet à la matière du spectacle
de macérer dans l'inconscient, de passer par le filtre
sélectif et naturel du temps. Le travail s'appuie ainsi
sur le non-travail, l'action s'élabore sur l'oubli. Le
processus de création n'est jamais forcé, il se
met en place de lui-même par retombée, décantation.
C'est ainsi qu'après deux années de recherche,
d'esquisses successives et clairsemées, le spectacle
a trouvé sa structure soudainement en une semaine sans
que j'aie eu à établir véritablement l'architecture
d'un scénario ou d'une partition à partir des
matériaux lentement amassés durant le travail.
Pour répondre aux deux autres points de votre question,
je dois vous avouer que je ne vois pas premièrement quel
rapport spécifiques le travail réalisé
sur ce spectacle peut avoir avec celui de J.L. Barrault, et
deuxièmement, j'ignore à quelle théorie
vous faites allusion quand vous parler de "poussée/contre
poussée - tirée/contre tirée". Si
vous voulez vous référer à l'étude
qu'Etienne Decroux a faite sur les actions de pousser, de tirer
- d'être poussé et d'être tiré, je
ne vois pas du tout en quoi cette étude partielle peut
être érigée comme une théorie couvrant
l'ensemble de son enseignement.
C'est une tendance regrettable que de vouloir toujours ramener
un travail à un système, faire d'une recherche
créative une doctrine dogmatique. C'est assurément
tuer la vie au profit d'un académisme figé. L'enseignement
d'Etienne Decroux fort heureusement ne se réduit pas
à un principe unique ou à une méthode.
C'est une multitude comportant bien des contradictions à
l'image de la bipolarité relative et constante de toute
forme vivante, où la seule théorie valable est
la pratique, où la seule réflexion crédible
est celle de l'action quotidiennement renouvelée. Si
une relation existe entre "Hein?
" et le travail
d'Etienne Decroux, elle se situe au-delà de la littéralité
du spectacle et d'un principe partiel de son enseignement.
Est-il possible de dire que "Hein?
" soit
d'une certaine manière le résultat de votre recherche
sur le mime abstrait?
Directement, non. Indirectement, oui.
"Hein?
" fut au premier abord envisagé
comme l'antithèse de mes spectacles précédents.
Après cinq années de recherche et de création
dans l'optique d'une forme théâtrale abstraite
de caractère tragique, épurée, ramenée
à une réalité ascétique, méthodiquement
expérimentée et dans une volonté constante
de justification théorique, je sentais se refermer sur
moi le cercle de mes propres convictions. Afin d'éviter
l'asphyxie et la sclérose, il fallait renouveler le sang,
rompre ce cercle et s'engager dans une direction diamétralement
opposée. Ce fut "Hein?
" conçu
dans une forme théâtrale burlesque et absurde,
avec un personnage bien particulier et des objets bien concrets
ayant reçus la patine du temps et où la seule
justification théorique était celle du plaisir
de l'acte théâtral.
Ainsi c'est dans une logique de rupture que "Hein?
"
trouve sa continuité avec mes spectacles précédents.
Toutefois il ne s'agit pas d'une contradiction ou d'un changement
radical. Le théâtre abstrait reste mon orientation
dominante même si depuis trois ans je n'ai rien entrepris
de nouveau en ce domaine. Mais le travail sur "Hein?
"
m'a démontré qu'il importe d'agir dans la diversité,
que la création théâtrale ne doit pas se
fixer sur un seul mode d'intervention, mais qu'elle doit tendre
vers une pluralité en réponse à la pluralité
du public et à la polyvalence des acteurs. Il me semble
important d'agir à tous les niveaux de la communication,
non pas dans la perspective d'un théâtre total,
mais dans celle d'un champ de productions théâtrales
différentes les unes des autres où chaque spectacle
possède sa propre fonction vis-à-vis du public
auquel il s'adresse. Un théâtre de rue est aussi
nécessaire qu'un théâtre de scène,
un théâtre populaire qu'un théâtre
de recherche ou pour enfants dans les milieux scolaires.
Il m'apparaît comme vital d'élargir toujours sa
pratique théâtrale afin d'étendre son champ
d'intervention. La difficulté est de maintenir l'unité
dans la diversité et le privilège dans l'ouverture.
Comme Marcel Marceau, vous avez été formé
selon le système de mouvement créé par
Etienne Decroux. Y a t il certains parallèles entre "Bip"
et "Hein?
" ?
Encore une fois, il ne s'agit pas du système d'Etienne
Decroux. Tout système est de fait systématique
et conduit au stéréotype, à la fabrication
de procédés stériles.
Etienne Decroux propose beaucoup plus qu'une technique, qu'un
système, qu'une méthode ou qu'une théorie.
Il invite à une confrontation, il incite une découverte,
celle de notre corps-pensée, et surtout, il suscite une
manière d'appréhender le travail, provoque une
expérience sur soi, en soi et par soi-même. Son
enseignement ne se réduit pas au simple inventaire descriptif
de ses exercices. Au-delà se situe l'esprit qui motive
leur incessante élaboration, ce qui est explicable et
ce qui ne l'est pas, ce qui est fait et ce qui est dit, ce qui
est démontré et ce qui est suggéré,
ce qui est défini et ce qui est indéfini avec
tous les aléas et les contradictions que de telles alternatives
impliquent. L'enseignement d'Etienne Decroux n'est pas un squelette
avec étiquettes. C'est un organisme comportant ces correspondances
internes, ces ramifications insoupçonnées selon
des jeux de reflets et d'échos difficiles à localiser
et où la netteté discursive du discours est sans
cesse enveloppée de clairs-obscurs intuitifs.
Etienne Decroux est un homme épris de clarté cartésienne,
parlant avec amour de l'esprit géométrique, mais
qui par ailleurs explose parfois dans des colères dont
la force dépasse tout ce que j'ai pu voir chez le genre
humain. Cette réalité est trop souvent négligée
de la part de ses étudiants qui ne retiennent souvent
que ce qui est expliqué. La lecture de son enseignement
ne peut donc se limiter à ce qui est formulé.
Elle doit être double. Cette ambiguïté détermine
par voie de conséquence des interprétations diverses.
C'est la raison pour laquelle les élèves d'Etienne
Decroux peuvent parfois emprunter des routes très différentes.
On n'acquiert pas une formation d'acteur comme on acquiert celle
de comptable. L'étudiant se forme davantage que l'enseignement
ne le forme. De plus un enseignement vivant n'est jamais immuable
et celui d'Etienne Decroux ne cesse d'évoluer.
J'ignore précisément ce que fut l'école
d'Etienne Decroux lorsque Marcel Marceau y a étudié
mais je sais que mon intérêt pour l'école
ne fut jamais porté sur le caractère imitatif
et illusionniste. Etienne Decroux lui-même n'insiste pas
sur cet aspect et il a souvent quelques réticences à
nous enseigner des mouvements trop illusionnistes et facilement
utilisable dans la pantomime descriptive. J'ai toujours senti
que sa préoccupation majeure était davantage tournée
vers la relation du corps et de la pensée dans un développement
de symboles que sur l'apprentissage d'une imitation.
Je n'ai jamais étudié en quatre années
comment ouvrir une porte sans porte, monter à une échelle
sans échelle, s'asseoir sur une chaise sans chaise, toute
la panoplie illusionniste de tout bon mime qui se respecte,
jusqu'à la fameuse marche sur place mise au point par
Etienne Decroux et que l'on voit exécuter par J.L. Barrault
dans le film "les enfants du Paradis". C'est précisément
ce refus de l'imitation illusionniste qui me motiva à
rester à l'école d'Etienne Decroux. Je le répète:
la pantomime ne m'a jamais intéressé et je me
suis toujours refusé à utiliser des procédés
illusionnistes dans mes spectacles.
Si on ajoute à cela que "Hein?
" est basé
sur un dialogue entre le personnage et des objets bien réels,
qu'il comporte une expression vocale faite de sons, d'onomatopées,
d'interjections et de quelques phrases, il est évident
qu'un écart important me sépare du travail de
Marcel Marceau. Le personnage de M. Ballon que j'incarne ne
se reconnaît aucunement dans celui de Bip et s'il y avait
des parallèles à établir il faudrait les
chercher davantage avec Charlie Chaplin, Buster Keaton, Samuel
Beckett et la tradition des clowns de cirque.
Chaplin comme Keaton appartiennent davantage au théâtre
qu'à la pantomime. Ils se lançaient au visage
de vrais tartes à la crème car l'important c'est
la manière et non le procédé.
Il semble qu'il y ait trois grandes écoles de mime aujourd'hui
en Europe, en Tchécoslovaquie, en Pologne et en France.
Quelles sont d'après vous leurs différences
et laquelle a obtenu les meilleurs résultats dans le
cadre du théâtre contemporain?
Je pense que vous faites allusions à Fialka, Tomaszewski
et Decroux. Je ne connais pas suffisamment le travail de Fialka
ni de Tomaszewski pour pouvoir établir véritablement
une comparaison critique. Il m'est donc difficile de vous répondre.
Néanmoins, j'ai eu l'occasion de voir un spectacle de
Fialka et un autre de Tomaszewski. En me basant sur ce qui me
fut présenté, je peux dire que Fialka est resté
toujours très proche du mime traditionnel imitatif et
illusionnistes dans une forme théâtrale purement
divertissante et que Tomaszewski, s'il semblait s'éloigner
du mime traditionnel, ce n'était que par l'intervention
d'un vocabulaire corporel emprunté davantage à
la danse que par de réelles initiatives innovatrices.
D'autre part, le caractère faussement onirique et allégorique,
le mauvais goût scénographique et la grandiloquence
du spectacle me semblaient peu propices pour l'avènement
d'un renouvellement à venir.
Je reste donc très partisan et considère que le
travail d'Etienne Decroux est le seul à ma connaissance,
qui véritablement touche à l'essentiel, pénètre
en profondeur dans la réalité du corps-pensée
et le seul à porter un renouveau même si par beaucoup
d'aspects son enseignement se formalise et s'enferme dans un
esthétisme.
A l'écart des clichés pantomimiques, à
contre-courant des tendances subjectivistes de beaucoup de théâtres
contemporains, Etienne Decroux travaille pour une régénérescence
du théâtre dans la voie déjà ouverte
par E.G. Craig, A. Appia, J. Copeau et O. Schlemmer.
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